100 litri d’acqua al giorno (nel deserto) imitando gli scarafaggi

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Può un’idea, un progetto, modificare abitudini e risolvere una crisi mondiale come quella dell’acqua potabile?

La domanda se l’è posta un italiano. L’architetto Arturo Vittori, fondatore dello studio Architecture and Vision, nel suo primo viaggio in Etiopia. Sulle spalle un bagaglio di conoscenze “spaziali”, maturato da progetti in collaborazione con enti governativi come l’ESA, la NASA… confrontandosi con paesaggi ostili e progettando con quello che il territorio riesce ad offrire.

In un momento storico segnato da crisi economiche, ambientali e sociali, ecco che ritorna il self-made, la tradizione del “fatto in casa”, dell’artigianato. Un’alternativa al modello capitalistico che non ha saputo conciliare l’attività umana con la natura, l’attività del singolo con quelle della collettività.

Come dice Vittori: “Quando si progetta una base per la Luna o su Marte il self-made è fondamentale.

Per gli insediamenti lunari di prima generazione l’uomo si dovrà confrontare con un ambiente molto ostile, estremo, con poche risorse disponibili ma fondamentali. Quando i primi astronauti, i primi robot, arriveranno, dovranno approcciare il problema con un self-made, dovranno fare tutto da loro. Andare in luoghi come l’Etiopia è un po’ come andare sulla Luna, in un certo senso”.

Il progetto WarkaWater, la torre che cattura acqua potabile dall’aria, nasce appunto come un self-made in questo suo primo viaggio, nel 2012. Recatosi nelle campagne etiopi viene a contatto con la crisi reale della scarsità di acqua potabile. Dal workshop in situ, in collaborazione con l’Università di architettura di Addis Abeba, si iniziano a studiare possibili soluzioni e materiali da utilizzare.

Scontrandosi anche con il genius loci, dove le risorse più importanti erano e sono quelle umane… tanta gente capace e vogliosa di fare.

Lo scenario di sperimentazione è quello del nord-est dell’Etiopia. Un paesaggio agricolo di sussistenza, caratterizzato da altopiani che raggiungono i 5.000 m e con villaggi disseminati sul territorio. Qui le condizioni climatiche fanno si che il processo di raccolta dell’acqua per condensazione possa avvenire, combinandosi col fattore crisi, l’esigenza pratica di acqua potabile. Una volta acquisiti quindi la manodopera; il materiale a basso costo (l’Etiopia è il primo produttore in Africa di bamboo) e definito il luogo, Awra Amba, un piccolo villaggio di poche centinaia di abitanti, la cui economia è basata sull’artigianato tessile, il concept del warka inizia a prendere forma in un prototipo scala 1:10.

Ma cos’è il Warka? Cosa fa? E perché WarkaWater?

Tutto inizia da un piccolo insetto, la stenocara. Lo scarafaggio del deserto della Namibia. Più piccolo di quelli che siamo abituati a vedere, è uno dei pochi esseri che riesce a sopravvivere nei deserti. Di giorno vive sotto la sabbia, “un pò come si dovrebbe fare sulla luna, che si sopravvive a condizioni estreme protetti dalla regolite, la sabbia lunare”, poi di notte quando le temperature scendono esce fuori. Si posiziona a circa 35°, sollevando le zampette posteriori inclinando così il guscio superiore. Quello che fa durante la notte è raccogliere acqua per condensazione sul proprio corpo, che posizionato alla giusta inclinazione, permette all’acqua di scivolare in avanti per essere assimilata. L’acqua accumulata è ricca di iodio e di elementi che gli permettono di sopravvivere anche per sette-otto mesi senza mangiare.

Studiato da ricercatori inglesi, questo insetto, in particolare il suo esoscheletro, è stato oggetto di una ricerca, che ha portato il Ministero della Difesa del Regno Unito a brevettare uno speciale tessuto, lo stesso usato per il Warka. Attualmente è in via di sperimentazione per fornire scorte d’acqua all’esercito di Sua Maestà nel deserto, per mezzo di particolari tute militari. Come la pelle dello scarafaggio, il tessuto è idrorepellente, non assorbe l’acqua, e non la lascia stagnare, anzi, la fa defluire.

“L’ispirazione è stata questo insetto… se noi riuscissimo con i nostri edifici, con le nostre case, i nostri grattacieli a fare un decimo di quello che fa questo insetto, il consumo di acqua verrebbe risolto, con un po’ d’ingegno , senza alte tecnologie, scoprendo semplicemente le tradizioni di alcune popolazioni che utilizzano questo approccio in diversi modi”.

Tornati da Addis Abeba avendo ben chiari gli obiettivi del concept, Vittori propone un secondo workshop, questa volta allo IUAV di Venezia, con la volontà di realizzare un modello scala 1:1. Qui con l’ausilio di software attuali, un approccio progettuale del tipo parametrico ed algoritmico, il warka si evolve. Una torre alta 9 m, costituita da una struttura reticolare a maglia triangolare, realizzata in materiali naturali tipici dell’Etiopia come il bamboo ed il giunco. Con un peso di solo 60 kg, è costituita di 5 moduli che si installano dal basso verso l’alto e possono essere sollevati e assemblati da 4 abitanti di un villaggio senza la necessità di ponteggi. Al suo interno il tessuto speciale in grado di raccogliere l’acqua potabile dall’aria per condensa, e alla base un recipiente.

In condizioni climatiche diciamo etiopi, dove di giorno si hanno temperature miti e di notte l’escursione termica è molte forte, la differenza di temperatura tra tessuto e aria, fa in modo che quest’ultima a contatto con il tessuto condensi rilasciando dunque l’acqua, elemento comunque presente nell’aria in percentuale più o meno alta. Al mattino sarà quindi possibile trovare sotto la struttura fino a 100 litri di acqua potabile. Utili a coprire il fabbisogno di una famiglia.

L’immagine che ci descrive Vittori è quella di villaggi dove donne e bambini partono a piedi nudi al mattino, per andare a cercare l’acqua. Camminando per ore sotto il sole, arrivano in luoghi dalle condizioni estreme, dove l’acqua è tutt’altro che potabile. La scena si ripete per tutto il giorno. Per fare questo i bambini dei villaggi non studiano. Spediti alla ricerca di acqua vengono sottratti all’istruzione fino al calare del sole, momento in cui, nel villaggio, la vita si ferma data la mancanza di elettricità.

L’obiettivo del WarkaEnergy e del WarkaPeople, varianti o meglio ulteriori step del progetto, è quello di divenire in un certo senso il centro del villaggio. Attorno a queste strutture, con l’ausilio di piccole celle fotovoltaiche e canopi, anche alla sera i bambini potranno ritrovarsi, potranno leggere, studiare e giocare…

Il Warka diventa quindi centro di risorse.

Non a caso il nome Warka è preso da un particolare albero di fico tipico dell’Etiopia. Un albero immenso, che crea una zona d’ombra molto importante, sotto la quale le popolazioni si riuniscono per fare le loro assemblee.

Insomma uno spazio urbano. Quello che per noi, nella nostra cultura italiana, equivale alla piazza.

Insegnare a queste persone un metodo, una risorsa… innescherà una cultura del fare, che di fondo è già in essere, ma che una volta regolata ed accettata dagli abitanti di questi territori, diventerà un sapere da tramandare. Parliamo di una struttura che assolve ad una funzione molto importante e che se integrata allo svolgimento della vita di un villaggio, avrà un forte impatto a livello antropologico… “è impossibile adesso definire quello che succederà, ma di certo sappiamo che una volta che avranno l’acqua, i bambini potranno studiare, le donne non si dovranno più spostare… tutto ciò è uno sconvolgimento che è avvenuto già nella società”… una sorta di civilizzazione.

Da qui la storia vuole che il Warka venisse replicato nuovamente. Questa volta lo spazio è quello della 13esima Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia. Uno scenario importante, che offre l’occasione a Vittori di promuovere il progetto oltre i confini nazionali tanto da raggiungere gli spazi espositivi della “Cité des Sciences et de l’industries” nel Parc de la Villette a Parigi. Attualmente lo Studio e le diverse Partnership sono al lavoro per raccogliere i fondi necessari per realizzare altre due strutture, per avviarne la diffusione in Etiopia.

Che siano davvero queste le gocce a far traboccare il vaso?! Beh… me lo auguro!!

Roma, 5 giugno 2014Dario Pompei ; nITroSaggio

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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