5 milioni di lavoratori senza tutele. Cosa manca nel Jobs Act delle Partite IVA?

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L’economia della quarta rivoluzione industriale, quella basata sul lavoro immateriale e le nuove tecnologie digitali, è caratterizzata dall’impoverimento e dall’autosfruttamento dei lavoratori autonomi e freelance, e per farla decollare veramente bisogna ripensare lo statuto del lavoro autonomo. Il Parlamento ci prova, ma manca qualcosa.

Credits: www.dottrinalavoro.it

Partiamo dall’inizio.

Lo scorso 8 febbraio il Ministro del lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti ha presentato presso l’Aula del Senato della Repubblica il Disegno di Legge di iniziativa governativa collegato alla Legge di Stabilità e titolato Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato (A.S. 2233 – XVII Legislatura) di cui ha già parlato su Chefuturo Michele Magnani.

Il testo è stato assegnato all’esame della 11ª Commissione permanente del Senato (Lavoro e previdenza sociale), riunita in sede referente, con Relatore il Senatore Maurizio Sacconi

Statuto del lavoro autonomo, smart working e quarta rivoluzione industriale

Questo DdL è suddiviso in due parti. Nella prima ci sono 13 articoli sulla «tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale», mentre nella seconda i restanti 9 articoli provano a disciplinare il cosiddetto «lavoro agile», o smart working e travail agile, cioè quel lavoro “digitale” (digital labour) che avviene tramite piattaforme e supporti informatici e tecnologici, da intendersi in questo caso come un mero strumento e non come una nuova tipologia contrattuale, visto che si rimane all’interno del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, avendo come riferimento normativo molti contratti decentrati con grandi imprese che già applicano forme di “lavoro agile”.

Per questo, sempre in quei giorni, lo stesso Maurizio Sacconi si è fatto promotore di un altro Disegno di Legge, Adattamento negoziale delle modalità di lavoro agile nella quarta rivoluzione industriale (A.S. 2229) costituito da 7 articoli e numerosi commi, tramite i quali si aspira a dare una «adeguata cornice legale entro cui ricondurre una nuova idea di lavoro e impresa che via via emerge con la diffusione della fabbrica digitale, della economia della condivisione e di quei “sistemi intelligenti” tra di loro connessi» (come riportato dalla Relazione di accompagnamento all’articolato del Disegno di legge).

Procedimento legislativo e controllo pubblico

La discussione di questi due Disegni di legge è stata quindi accorpata nella stessa 11ª Commissione permanente del Senato (qui la Relazione di accompagnamento), dove sono in corso le audizioni e la raccolta di memorie e documenti, presentati da sindacati, associazioni di professionisti, freelance e lavoratori autonomi, che al momento sembrano però riguardare soprattutto il primo dei due testi normativi, quello che comunemente viene definito come il Jobs Act delle Partite IVA, perché intenzionato a coprire un vuoto normativo, definendo uno Statuto per il lavoro autonomo.

Vale la pena segnalare alcuni elementi mancanti in questo articolato legislativo, approfittando delle audizioni parlamentari come occasione di ampliamento della discussione pubblica, per coinvolgere settori interessati della società nei processi di apertura, trasparenza, informazione, controllo e implementazione dell’attività di produzione legislativa delle Camere, secondo una plurisecolare lettura progressiva delle relazioni tra opinione pubblica e istituzioni rappresentative.

Cosa manca nel Jobs Act delle Partite IVA?

Il primo elemento che sembra mancare è una chiara definizione di quali siano i soggetti destinatari di questo intervento normativo. Solo i liberi professionisti iscritti alla Gestione Separata INPS, che secondo alcuni calcoli sembrerebbero essere poco più di 220 mila? E che ne sarà degli altri milioni di lavoratori autonomi, visto che è lo stesso governo a ricordare come secondo il “Rapporto sulla situazione del Paese” l’ISTAT quantifichi in circa 5,5 milioni i lavoratori autonomi? Cosa accadrà alle partite IVA iscritte alle casse previdenziali private di ordini professionali? Sappiamo che avvocati, ingegneri, architetti, psicologi, giornalisti sono categorie colpite da un progressivo impoverimento, come raccontato dalla recente manifestazione della Mobilitazione generale degli avvocati. Ci si limita al riferimento contenuto nel primo articolo del DdL riguardo al Titolo III, Libro Quinto del Codice Civile, che disciplina i rapporti di lavoro autonomo: prestazioni d’opera, di servizi, d’opera intellettuale, libere professioni? E per l’infinita mole di collaboratori coordinati e continuativi, anche loro iscritti alla Gestione Separata INPS?

Diventa necessaria e ineludibile un’opera di chiarimento già in sede di Commissione, per comprendere come tutelare al meglio e in modo adeguato i diversi segmenti del lavoro oltre la subordinazione classica: il lavoro autonomo genuino, di freelance e lavoratori indipendenti; le tradizionali professioni liberali in crisi, soprattutto in rapporto alle casse previdenziali private; quindi i soggetti della para-subordinazione, del lavoro intermittente e flessibile.

Altri tre punti intorno ai quali bisognerebbe discutere sembrano essere del tutto assenti nello stesso articolato di legge: disciplina delle modalità di scioglimento dei rapporti con la committenza, eventuale definizione dell’entità di equi compensi e previsione di diritti di azione collettiva dei lavoratori autonomi e freelance.

Welfare universale, reddito minimo ed economia digitale

Profili che dovrebbero costituire l’ossatura di un nuovo garantismo sociale, nel solco di un auspicabile Statuto per il lavoro autonomo e indipendente, che sia però anche un’occasione per porre mano alla realizzazione di un sistema che contemperi equità fiscale e Welfare concretamente universale. A partire dall’introduzione del reddito minimo garantito, misura che tutti gli altri Paesi dell’Europa continentale e nordica posseggono e tutela fondamentale delle persone nel mercato del lavoro, per proteggere i soggetti dai rischi del lavoro povero e intermittente, quindi nelle transazioni lavorative, o nei periodi di inattività/riduzione delle commesse. Anche perché, stando sempre alla all’analisi tecnico-normativa del Governo, che accompagna il Jobs Act delle partite IVA, «in questi anni le forme autonome di lavoro hanno fortemente subìto le conseguenze della crisi economica, costituendo il corpo sociale che più consistentemente è scivolato verso il rischio della povertà e dell’esclusione sociale». Si tratta quindi di introdurre la garanzia di un reddito di base come diritto sociale e di libertà basilare nell’età digitale, proprio in relazione alla nuova, montante, rivoluzione tecnologica e digitale.

E qui si inserisce l’ultima considerazione a partire dalla quale converrà tornare a ragionare sulle fatiche del legislatore e del diritto dinanzi all’innovazione sociale e tecnologica nelle trasformazioni del fare impresa, “lavori” e produzione. Perché sembra di essere solo agli albori di un primo esplicito riferimento parlamentare al dibattito giuslavoristico e sociologico intorno alle piattaforme cooperative nell’economia digitale della collaborazione e condivisione, mentre nell’altro ramo del Parlamento è stata presentata, dall’Intergruppo parlamentare per l’innovazione tecnologica, una Proposta di legge di Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione (Atto Camera 3564) definito Sharing Economy Act (SEA), aperto alla consultazione pubblica fino al 31 maggio 2016.

Employees Vs. Independent Contractors (Self-Employed)?

In tutto questo proliferare di iniziative normative sembra rimanere ancora del tutto escluso il grande interrogativo della Sharing Economy: una tendenza che genera una faticosa confusione tra la condizione di ipotetici “impiegati” (Employees) di una qualche App o Start-up digitale, a fronte di una variegata moltitudine di potenziali freelance, liberi prestatori d’opera, Independent Contractors, spesso persone che svolgono lavoretti intermittenti, con bassi salari e con l’effetto di scaricare sul singolo lavoratore individualizzato, occasionale e sempre a disposizione, tutta una serie di rischi prima ammortizzati da legislazione, grande impresa, sindacati, istituzioni pubbliche e contrattazione. Come ci ricorda un attento studio giuridico di Brishen Rogers si tratta di The Social Costs of Uber. Una questione aperta nel cuore delle trasformazioni sociali, economiche e giuridiche negli Stati Uniti, come in Europa.

Per questo è utile e necessario per tutti continuare a seguire i lavori parlamentari e incrementare il dibattito pubblico intorno a questi temi.

GIUSEPPE ALLEGRI*

*Ricercatore, docente Sapienza Università di Roma

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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