6 concetti chiave per capire cos’è la on-demand economy e come cambia il lavoro digitale

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Solo qualche settimana fa, Mary Meeker – partner di KPCB – ha rilasciato la sua ormai classica e molto attesa presentazione sullo stato di Internet. Accanto ai soliti e ricorrenti dati sulla penetrazione dell’accesso alla rete, sull’ubiquità degli smartphone e sui megatrend tecnologici, la presentazione di quest’anno presentava un focus rilevante sul tema chiave della cosiddetta “on-demandeconomy.

Il punto di vista di Meeker forse ci potrà finalmente aiutare a superare l’empasse, che viviamo da molti mesi ormai, nel descrivere questo modello economico emergente: spesso sono gli stessi che definiscono questa come “sharing economy” che poi si accapigliano in infiniti dibattiti su quanto “sharing” sia un servizio piuttosto che un altro e su quanto estrattiva sia questa nuova forma di “capitalismo delle piattaforme”.

1. LA RETE E’ ENTRATA NELLE NOSTRE VITE E TRASFORMA TUTTO QUELLO CHE E’ MIGLIORABILE

Nella presentazione di Meeker – ma sostanzialmente in ogni analisi degna di questo nome sia apparsa negli ultimi mesi online – si delineano due aspetti chiave di questa trasformazione: da una parte la trasformazione della domanda, dall’altra la trasformazione del lavoro e dell’offerta di lavoro.

Dal punto di vista della domanda l’opportunità è piuttosto chiara: con la pervasività della rete e dell’accesso in mobilità il mondo non ha più spazio per cattive esperienze e c’è un universo di servizi da migliorare, rendere più accessibili, più smart, più efficienti e efficaci – sia da un punto di vista generale che puramente economico – e questo sta accadendo con forza.

I disruptor digitali identificano nicchie di inefficienza, ne comprendono il valore, ne riprogettano le esperienze per gli utenti (visti oggi anche come potenziali produttori) e, nella maggior parte delle industrie, arrivano a crescere così velocemente e così tanto da ridefinire gli standard.

Lo ha fatto Airbnb nel viaggiare e nell’ospitalità, Uber nel trasporto urbano ma anche UpWork con il mercato del lavoro free lance nell’economia della conoscenza.

2. I MARKETPLACE HANNO REINVENTATO L’ECONOMIA TRA CITTADINI E IMPRESE

L’interessante novità del momento, rispetto al passato, è che spesso – nella quasi totalità delle occasioni dove realmente si verifica un sovvertimento dei vecchi modelli e una crescita esponenziale – i nuovi attori che ridefiniscono il prodotto/servizio e con esso l’esperienza lo fanno utilizzando l’arma del marketplace. Come abbiamo già visto in passato qui su CheFuturo!, questa è l’era dei “network orchestrators”: brand e aziende che riescono a identificare quali fabbisogni e quali capacità sono presenti nella società e a progettare piattaforme abilitanti dove queste capacità e fabbisogni possono essere efficacemente connessi, attraverso appropriati canali, e dove importanti flussi di scambio di valore son generati dall’interazione tra i peers (cittadini produttori) , la piattaforma e le e imprese partner (per riferimento a un modello utilizzabile per progettare queste piattaforme potete guardare al Platform Design Toolkit).

A tutti gli effetti quello a cui assistiamo è la “commercializzazione” di una serie di interazioni sociali tra individui: ed è qui che spesso si genera l’equivoco del non-abbastanza-sharing-per-i-miei-gusti.

Alcuni hanno questa convinzione che distribuire, nella società, un processo di consumo e produzione di valore che finora è stato centralizzato e industrializzato sia quasi sacrilego: quante volte abbiamo sentito qualcuno dire “ma questo non è sharing! È solo una vendita di servizi”.

Ciò che manca è dunque, forse, una semplice presa di consapevolezza: il marketplace si dimostra oggi lo strumento più potente di organizzazione della società intorno a necessità e capacità; esso supera di slancio, nell’era dell’abbattimento radicale dei costi di transazione, l’approccio industriale lineare dell’ “io (azienda) produco tu (consumatore) consumi”.

3. IL CITTADINO-PRODUTTORE MONETIZZA TEMPO, CAPACITA’ E RISORSE

È stato per lo più grazie alla scoperta della relazione tra la natura stessa dell’azienda e il costo di transazione (che potremmo definire come l’insieme dei costi legati all’organizzazione di un’attività) che Ronald Coase, ricevette un tardivo premio Nobel per l’Economia nel 1991. L’articolo del 1937 offrì per primo una spiegazione economica del perché gli individui scelgono di formare aziende e organizzazioni piuttosto che rapportarsi bilateralmente (tra pari) su un mercato. Durante l’era industriale le burocrazie sono dunque servite per organizzare in modo più efficiente le esigenze e le capacità di una società in cui il costo di transazione era piuttosto elevato. Qualche settimana fa Geoffrey Moore (famosissimo autore di “Crossing the Chasm”, la bibbia del marketing semi-tradizionale) esaminando il lavoro di Coase e attualizzandolo ha riflettuto proprio sulle profonde trasformazioni che l’economia digitale sta avendo sulla struttura dell’azienda stessa.

Secondo Moore, la transizione verso la prospettiva post-industriale (quella di un’azienda che agisce come orchestratore di risorse più che produrle) ha effetti non solo sui modelli di business, con la nascita appunto dell’on demand economy, ma sulla natura dell’azienda stessa. La necessità di interagire e collaborare con partner e cittadini produttori si dimostra essere profondamente distruttiva per le strutture gerarchiche e burocratiche che hanno fornito la principale motivazione per l’esistenza di un’intera classe di middle-managers, per la maggior parte del ventesimo secolo.

Il passaggio dalle burocrazie aziendali agli imperi digitali è, secondo Greg Satell, così rilevante che egli definisce le piattaforme come le “burocrazie dell’età interconnessa”.

Certamente le sfide che questa nuova (e vincente) strategia di organizzazione della produzione presenta sono numerose e vanno oltre la pur complessa tematica della cancellazione di una quantità incredibile di lavoro. In prima battuta queste piattaforme stanno abilitando una trasformazione in chi “consuma”: l’esperienza va verso l’on-demand e il “self fulfillment” – infine verso il pericoloso narcisismo di chi può avere tutto a portata di mano. Per così dire inevitabilmente, l’impatto delle piattaforme digitali è ancora più elevato nel trasformare l’esperienza di chi produce.

Si afferma dunque la figura del “cittadino produttore”- creatore di valore indipendente, che monetizza il suo tempo, le sue capacità e le sue risorse – e che, come ben spiegato da Meeker nella seguente figura, agisce in maniera sinergica con gli innovatori digitali e i creatori di piattaforme e spinge avanti la società nello sperimentare, creando frizioni con gli attori “istituzionali” (i regolatori e gli incumbents).

Ma chi è questo cittadino produttore? Un recente ed esaustivo post sul “The Atlantic” di qualche giorno fa ne traccia un quadro interessante ma non senza tinte fosche e conclude che “l’economia on-demand è piuttosto esigente verso i suoi lavoratori: vengono attratti dalla flessibilità, ma poi si ritrovano a cercare di allineare le loro giornate di lavoro con picchi di domanda (che non corrispondono sempre una tipica giornata lavorativa)” e, nota inoltre, come “questa flessibilità potrebbe diventare ancora più illusoria quando le piattaforme […] inizieranno a sentire la pressione da parte degli investitori e dei venture capitalist non solo a crescere, ma a diventare più redditizie”.

4. C’E’ UNA NUOVA CATEGORIA DI LAVORATORI DIGITALI CHE NON VA COMBATTUTA MA REGOLAMENTATA

Malgrado il dibattito su questi temi, quelli della trasformazione del lavoro, sia in Italia solo ai suoi primi passi, esso è vivo in tutto il mondo: solo qualche giorno fa, in quella che sembra solo una prima puntata di uno scontro tra lobby, la commissione per il lavoro della California è arrivata a dire che gli autisti di “Uber” sono impiegati e non lavoratori a contratto.

In un condivisibilissimo pezzo su Re/Code di qualche giorno fa, Marina Gorbis inquadra a mio parere egregiamente la questione e spiega che se è vero che dobbiamo garantire che questa nuova categoria di lavoratori goda di salari equi e dei benefici del welfare è importante che questi stessi benefici siano adattati alle nuove realtà del lavoro. Secondo Gorbis questa nuova realtà: “sarà diversa, e invece di applicare vecchie norme, avremo bisogno di capire […] la logica interna delle nuove piattaforme e l’economia del lavoro che le caratterizzano, gli elementi di design che possono massimizzare i loro aspetti positivi e la gamma completa di sfide e opportunità che esse rappresentano” .

E ancora che “ora è il momento di intensificare la più grande attività di progettazione che il mondo abbia mai intrapreso: ripensare il futuro del lavoro stesso dal punto di vista delle persone che lavorano”.

5. VINCE IL MERCATO DIGITALE PERCHE’ SONO IN CRISI LE ISTITUZIONI

Nell’attendere a questa enorme sfida, le nostre istituzioni, burocratiche e pensate in un’altra epoca, segnano il passo. La crisi e lo scontro col regolatore (in atto più o meno fortemente in tutti i paesi dove queste nuove piattaforme e marketplace emergono con forza) è dovuta essenzialmente alla disintermediazione della regolamentazione: questi sistemi-marketplace nascono portandosi dentro sistemi di auto-regolamentazione che sono spesso complessi da comprendere dal punto di vista di attori istituzionali che finiscono per diventare irrilevanti nell’ecosistema.

Tuttavia, la spesso non trascurabile impronta che, al di là dei problemi legati al lavoro, queste piattaforme producono sulla realtà (dagli effetti gentrificanti di Airbnb all’utilizzo delle infrastrutture urbane che fa Uber) giustificano una necessità di un equa regolamentazione a tutela dell’interesse comune che non può essere disattesa.

In passato mi è capitato di soffermarmi sul tema “terza era digitale”: oggi viviamo un contesto digitale che permette ai brand e alle aziende di raccogliere una quantità rilevante di dati e informazioni e di costruire, sulla base di questi, un sistema di raccomandazioni, configurazioni e anticipazioni dei bisogni che permetta agli utenti di usufruire dei servizi nella maniera più efficace possibile e che li porti a ottenere i loro obiettivi “per mezzo del brand” e grazie all’empowerment che lo stesso è capace di mettere in atto verso gli utenti.

In maniera del tutto analoga a quanto accade rispetto al rapporto coi brand e le aziende, questi “cittadini produttori” si aspettano dunque dalle istituzioni la capacità di anticipare le necessità di regolamentazione e di metterle in atto al momento giusto con l’obiettivo di migliorare la loro esperienza – appunto di cittadini (sempre più) produttori – nel quadro delle nuove possibilità date dall’economia digitale interconnessa.

6. CAMBIARE PROSPETTIVA PER FARE IL “RINASCIMENTO DIGITALE

In un recente paper “Regulation the internet way”, Nick Grossman ha spiegato (come spesso fa, egregiamente) il contesto e il cambiamento di prospettiva che l’emergere di queste nuove piattaforme digitali richiede a chi si occupa di policy making. Mentre nell’approccio 1.0 alla regolamentazione – quello che le nostre istituzioni amministrative di stampo fordista sono abituate a utilizzare – ci si basa secondo Grossman sull’ “ottieni il nostro permesso e poi fai”, nella regolamentazione 2.0 il punto di vista è totalmente differente e si basa su un più permissivo “innova pure, noi tracceremo la maniera in cui ti comporti e, nel caso in cui ti comporti male, la tua reputazione sarà impattata”.

Il punto è dunque passare da un sistema sostanzialmente chiuso alle novità, con una regolamentazione basata sul dare “permessi in anticipo”, a un sistema aperto dove la regolamentazione è basata sull’analisi dei dati a posteriori, e sulla ricerca degli impatti ed è, in un certo senso, “data-driven” guidata e giustificata dall’esperienza e dall’apprendimento. Grossman stesso tuttavia mette in guardia di fronte alla complessità della ricerca di questa sintesi: da una parte con le piattaforme gelose dei loro dati, e dall’altra le istituzioni burocratiche gelose del controllo.

Ci troviamo, dunque, in un momento storico in cui (come dice Greg Satell in un bellissimo pezzo intitolato “La rivoluzione non verrà centralizzata”) la crisi dell’economia digitale, più che essere una crisi dell’individuo, è una crisi “dello scopo istituzionale”.

Questa crisi è dunque la crisi che viviamo ogni giorno nell’immaginare e mettere in pratica, politicamente, un nuovo modello di produzione-e-welfare, un modello adatto all’era digitale, che finalmente rimuova i freni di quella che potrà essere un vero rinascimento digitale.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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