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600 milioni (e 3 motivi) per capire che il futuro è la condivisione

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Da un pezzo si parla di capire meglio cosa significa economia collaborativa (aka sharing economy o condivisione dei beni) e il 16 Gennaio appena passato io Ivana Pais e Marta Mainieri abbiamo provato a dare una risposta in un partecipato hangout in cui abbiamo presentato un breve Slide Report.

Non siamo stati gli unici in questi mesi a occuparci del tema. Tuttavia solo qualche settimana fa l’icona della sharing economy Rachel Botsman, TED speakere autrice del libro che per molti è stato l’iniziatore del movimento globale “What’s mine is yours” ha abbozzato la sua visione del trend dell’economia collaborativa in questa presentazione.

Per quanto accurato possa essere, questo tentativo di tassonomia non sarà mai in grado (a mio modesto parere) di dare una descrizione condivisa e olistica di quello che significa già oggi e di quello che può significare in futuro il tema collaborazione in economia.

Decisamente troppe e troppo diverse sono infatti le interpretazioni possibili, troppa è la storia che c’è dietro a questo modo di vedere le cose, attraverso la lente della collaborazione e della condivisione.

Se ci soffermiamo a pensare alla storia recente, l’approccio collaborativo e cooperativo, in contrapposizione con quello privatistico, è una tendenza consolidata nella società sia moderna che storica. Pur tralasciando la abbastanza conosciuta storia del movimento cooperativo (molto lunga e forte in Italia) e soffermandoci a guardare come questi concetti hanno preso forma nel mondo digitale, possiamo dire che l’idea di costruire infrastrutture condivise di conoscenza (come Wikipedia), o piattaforme abilitanti condivise (come il Software Libero) non è affatto nuova.

[Leggi anche: E’ la sharing economy la grande occasione di EXPO2014, lo capiranno?]

Gli antenati “digitali” del modello, sono nati alla fine degli anni Settanta, prima che internet pervadesse ogni cosa, proprio quando essa in effetti, muoveva i primi passi.

Fu allora che Richard Stallman propose per la prima volta un approccio cooperativo e aperto alla produzione del software. Dopo decenni, il dibattito sul software libero infuria ancora, alimentato dalle recenti notizie riguardanti lo spionaggio e il controllo statale negli USA.

Dobbiamo dire che anche una riflessione generale sui beni comuni e sul loro ruolo nella società è da considerarsi piuttosto matura se si valuta il contributo e il lavoro di persone come il premio Nobel Elinor Ostrom, che ha dedicato la sua vita a dimostrare che la cosiddetta “tragedia dei beni comuni” – il principio per cui i beni comuni soccombono agli interessi privatistici dei singoli – non è sempre vera e che le comunità possono rispettare e curare i loro beni comuni.

E come non citare il lavoro di Yochai Benkler sui beni comuni digitali e il loro ruolo abilitante alla produzione collaborativa sulla rete, o l’incredibile apporto del fondatore della P2P Foundation e sostenitore di lungo termine dei Commons, Michel Bauwens nel comprendere e studiare queste dinamiche.

[Su questo argomento: Perché il 2014 sarà l’anno della sharing economy]

Proprio Michel, e questo può essere posto a testimonianza di quanto potenzialmente importante possa diventare la visione cooperativa e collaborativa nella società, è oggi direttore di ricerca del progetto FLOK society. FLOK society è progetto strategico lanciato dal governo Equadoregno con il dichiarato obiettivo di

“cambiare la matrice produttiva verso la creazione di una società basata sulla conoscenza comune, libera e aperta” in linea con il suo piano nazionale per il buon vivere.

1. SOLO ROBA DA STARTUPPER?

Così è importante oggi per noi comprendere che dietro il termine Sharing Economy non c’è solo l’ennesimo mercato per Venture Capital e Startup. Certamente i VC di San Francisco e New York oggi sono padroni della scena e per spiegare quanto questa componente sia importante nel movimento basta pensare che qualche mese fa, ha creato la sua stessa struttura di lobby, Peers.org.

Per chi non lo conoscesse ancora, Peers.org si dichiara “un’organizzazione guidata dai membri che supporta il movimento della sharing economy” ma la scarsa trasparenza e la scarsa disponibilità a chiarire quali motivazioni e attori spingono l’iniziativa si è presto trasformata in una ondata di poco velate critiche, a testimoniare le frizioni crescenti tra queste due visioni dell’economia collaborativa (quella privatistica, dei ventures e quella dei movimenti cooperativi).

Commentando la presentazione di Peers fatta da Douglas Atkin di Airbnb a Le Web nel 2013, Tom Slee, un frequente commentatore del fenomeno – la mette giù così, senza fronzoli:

“Crunchbase mi dice che il finanziamento totale per i 40 partner [di peers] è già oltre i 600 milioni di dollari. AirBnB ha ricevuto 120 milioni, tra cui i finanziamenti Andreessen Horowitz, Jeff Bezos, Ashton Kucher […] quasi tutti i finanziamenti vanno a finire nella Bay Area o a New York. I non-profit che sono entrati in questa organizzazione sono stati presi in giro dal linguaggio anti-establishment accattivante della Silicon Valley”.

Dal mio punto di vista, non credo sia salutare per la discussione criminalizzare la cultura startup che, va detto, oggi incassa i maggiori benefici dall’affermarsi di queste prospettive collaborative.

Questa cultura incarna principi semplici e non potrebbe essere diverso: la crescita esponenziale, la massimizzazione della redditività a breve termine, la moltiplicazione del valore del capitale (sul tema raccomando questo post di Bertram Niessen su doppio zero http://doppiozero.com/materiali/chefare/la-cultura-delle-start).

D’altronde quelle che oggi sono le grandi e redditizie aziende, pur nate come startup, che basano il loro modello di business sulla cooperazione con il pubblico degli utenti – da AirBnB a Elance, da Lyft a Uber a oDesk e Task Rabbit – crescono vertiginosamente, esponenzialmente agendo da piattaforme e inglobando il coinvolgimento degli utenti nel loro business model.

Questo legame con le loro comunità di utenti le sottoporrà presto a interrogarsi il ruolo che queste, così importanti per il buisiness dell’azienda, dovranno avere nella governance della stessa. Da più parti si parla infatti della possibilità di dare voce a “sindacati” di utenti (pensate agli Host di Airbnb o ai driver di Uber o Lyft) nel board di queste aziende, e anche a rispecchiare i loro valori nella produzione.

[Leggi anche: Un italiano su 10 è già passato alla sharing economy, altri due lo faranno presto]

Sulla scia di queste rampanti e disruptive startup, interessate a questi nuovi modelli di crescita e al ruolo che la co-produzione e cooperazione con gli utenti può avere nel ridurre i costi, nell’alimentare l’innovazione e nel generare prospettive di lungo periodo, sono oggi sempre di più i grandi brand e i giganti dell’economia produttiva a sembrare interessati alle prospettive dell’economia collaborativa.

Proprio a dicembre, il lancio di Crowd Companies, il Brand Council fondato dal guru del Social Business Jeremiah Owyang – e che conta tra le sue fila aziende quali Ford, General Electric, Visa, Nestlè, Intel, Walmart e molti altri – ha fatto capire al mondo che l’economia collaborativa è oggi un tema centrale, talmente ampio da riguardare il futuro delle corporations. Non a caso questi player cercano una prospettiva di resilienza, la capacità di stare sul mercato efficacemente nel lungo periodo e resistere agli shock. Attraverso l’adozione di modelli collaborativi.

2. ATTENTI ALLE CLASSIFICAZIONI

Solo qualche giorno fa, nei giorni in cui il movimento anti evictionista della Silicon Valley manifestava bloccando i bus che trasportano gli impegati delle grandi aziende digitali, Alice Marwick su Wired US, parlava così di elitarismo digitale:

“L’Elitarismo digitale non riconfigura il potere, ma lo consolida. Giustificazione per enormi divari tra ricchi e poveri, con grandi differenze tra la persone media e i ricercati ingegneri. Si idealizza una “classe migliore di gente ricca” che evangelizza la filantropia e l’imprenditorialità sociale. Ma promuove anche l’idea che l’imprenditorialità è una soluzione winner-takes-it-all e che la cultura startup è il modo migliore per risolvere qualsiasi problema”.

Ma ecco, è proprio questo approccio alla “classificazione”, al definire cosa sta dentro e cosa sta fuori da un movimento o un contesto che genererà, se non siamo attenti, il conflitto. Vedere contrapposto l’approccio tradizionalmente capitalista dei venture capital che investono in aziende votate alla crescita, alle iniziative comunitarie interessate alla generazione di valore le relega nel no-profit.

Proprio questo conflitto può essere fatale dunque alla penetrazione di elementi collaborativi nella società produttiva.

Così, piuttosto che tentare di identificare ogni tratto dell’economia che esprime una tendenza a incorporare oggi aspetti di collaborazione, condivisione e co-creazione (produttiva), credo che sarebbe più maturo da parte nostra, cominciare a lavorare per far comprendere a aziende, operatori, amministrazioni, professionisti e attivisti di tutto il mondo che è l’economia nella sua interezza ad avere davanti a sé oggi, la grande opportunità della cooperazione.

3. STORIA E EVOLUZIONE DELLA COOPERAZIONE

[Leggi anche: Condividere non è una moda passeggera ma una tradizione antica: recuperiamola]

Non solo però la cooperazione rappresenta una opportunità: presto potrebbe rappresentare l’unica scelta. Se ci focalizziamo troppo su questi elementi di discussione e su quanto è giusto che siano fondi e capitali privati a generare i maggiori profitti da un trend culturale e sociale che ha radici più generali, rischiamo infatti di perdere di vista che oggi c’è una prospettiva fondamentale da tenere a mente: quella evolutiva.

Per spiegare questo punto di vista farò un parallelo. Quando Adam Bowyer, fondatore del progetto Rep Rap (una famiglia di stampanti 3D completamente open source capaci di auto replicarsi, stampando gran parte dei propri pezzi) fu interrogato a proposito della scelta di Makerbot di chiudere l’accesso ai sorgenti, e abbandonare il mondo “collaborativo” e open source da dove Makerbot era nata, per concentrarsi sulla redditività e sulla protezione degli avanzamenti tecnologici, Bowyer non fece una piega e concluse un lungo commento che potete leggeri qui con questa frase:

“If you are taking part in the RepRap project, then I hope that you believe Open Source to be a morally and politically good thing, as I do. But if you don’t believe that, you are still welcome to take part, by me at least. When it comes to the success or failure of RepRap, moral beliefs, legal constraints and the flow of money are almost completely irrelevant. It is the evolutionary game theory that matters”.

Bowyer fece notare a tutti come la cooperazione e la collaborazione, espressione della scelta di creare un progetto open source, siano da vedere come strumenti per alimentare la penetrazione nella società.

Allo stesso modo in cui la diversità della famiglia di stampanti open source Rep Rap permea il mercato delle stampanti 3D (secondo 3D Hubs, Rep Rep e i suoi derivati più diretti coprono sicuramente più di un quarto del mercato oggi http://www.3dhubs.com/trends) la diversità delle incarnazioni dei paradigmi dell’apertura, della collaborazione e della condivisione entreranno nel mercato del business di domani.Già oggi la sperimentazione è grande: il recente libro di Marjorie Kelly The Emerging Ownership Revolution racconta molte storie a proposito di come le comunità stanno strutturandosi per produrre sul mercato in competizione con il business tradizionale ma seguendo logiche differenti dal mercato, logiche di sostenibilità, resilienza e impatto.

Emergono i primi esperimenti di gestione aziendale completamente liquida e destrutturata: niente più manager e board, solo una missione condivisa, metodi chiari e trasparenti, cose da fare e persone che le fanno. Si è parlato molto di Holocracy in questa settimana ma realtà più vicine a noi come Sensorica, il gruppo OuiShare e la italiana Cocoon Projects sono già molto avanti nello sperimentare veri e propri “protocolli” di gestione del lavoro per il raggiungimento di obiettivi.

Cosa succederà quando questi strumenti saranno maturi e accessibili? Quando protocolli standard aiuteranno questi player a collaborare e orientarsi al servizio di una visione comune? Non lo sappiamo ancora, certamente come disse taichi ono ““There is No Standard. No Kaizen (miglioramento)” e dunque dovremmo forse auspicare l’adozione di una pratica di gestione delle aziende e degli attori produttivi che sia più aperta, trasparente, standardizzata e accessibile.Per comprendere questa e altre sfaccettature dell’economia collaborativa sto occupandomi di progettare il programma della prossima OuiShare Fest di Parigi: dal 5 al 7 Maggio, un evento che coinvolgerà il mondo delle comunità, del business e della pubblica amministrazione. Mi piacerebbe che molti italiani, più di quanto avvenuto lo scorso anno, partecipassero a proporre i loro contenuti e progetti per il programma: per i più interessati il 28 Gennaio a Roma ci incontreremo per parlarne.

Ci vediamo li.

Se il pezzo vi è piaciuto potete leggere un approfondimento correlato qui e seguirmi su @meedabyte.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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