A.A.A. Lavoratori digitali cercasi. Come risolvere il paradosso del lavoro che c’è ma non si trova

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A volte le cose più difficili da vedere sono quelle davanti ai nostri occhi. Prendete la mancanza di professionisti digitali per esempio: da una parte mancano candidati qualificati per tanti posti digitali– data scientist, tecnici per la robotica, progettisti di interazione; dall’altra giovani senza lavoro e comparti che faticano a innovare.

È un grande paradosso, un buco nero visibile ovunque in Europa ma in Italia forse più impattante che altrove.

Ed è, al contempo, un problema per cui qualcosa può essere fatto, restituendo opportunità a chi cerca lavoro e fiato alle corse dell’occupazione e della trasformazione digitale. Ma andiamo con ordine.

I dati UE raccontano di circa 900000 posizioni digitali vacanti in Europa tra 2016 e 2020, e Confindustria porta la stima fino a quota 1,5 milioni Mentre i dati di Unioncamere/Ministero del Lavoro documentano la presenza, in Italia e oggi, di 76000 posti che restano vuoti per mancanza di candidati qualificati.

Perché il buco appena descritto? Perché c’è uno spazio non coperto, e spesso neppure percepito, al centro del triangolo che unisce aziende, giovani lavoratori e istituzioni formative. In particolare:

● Le aziende che vogliono usare meglio internet cercano professionisti qualificati, e fanno fatica a trovarne;● i neolaureati neodiplomati cercano lavoro, e spesso fanno fatica a trovarne;● le istituzioni e i soggetti formativi che lavorano per ridurre la disoccupazione, e spesso fanno fatica ad aggredirla.

Al centro del triangolo c’è spazio per creare lavoro e valore economico.

Quali sono allora le possibili misure da mettere in campo per ridurre questo gap creare lavoro, e perché no, accompagnare lo sviluppo dei distretti digitali del nostro paese?

Quanto pesa l’economia collegata a Internet: i numeri

Oggi l’economia collegata a internet pesa in Italia per circa il 2% del PIL, contro il 3% della Francia e oltre il 5% in paesi come Regno Unito e Svezia [fonte: Boston Consulting Group 2015].

A livello di aziende, nel 2015 solo il 7% delle PMI italiane vendeva online, meno della metà rispetto alla media europea [attestata al 16%] ed a distanza siderale dai paesi più evoluti come l’Irlanda, dove effettua vendite digitali il 32% delle organizzazioni private [fonte: Eurostat].

Tale differenziale trova riscontro anche nei livelli occupazionali: nel 2011, In rapporto agli occupati totali, il settore dei servizi di informazione e comunicazione rappresentava in Italia il 2,4% contro un livello europeo attestato intorno al 3% (UE27, 2,9%).

Le cifre appena offerte, peraltro, appaiono poco in linea con la presenza in Italia di diverse aziende internet di livello internazionale. È il caso di Yoox, leader mondiale nel settore della moda online, ma anche di realtà più piccole ma non meno agguerrite.

Interpellati sul tema, i dirigenti delle aziende in questione segnalano come principale problema la difficoltà a trovare giovani professionisti qualificati, nelle aree ICT pure ed in quelle commerciali, editoriali e di marketing collegate.

Un gap che non vediamo e i nodi da sciogliere

Perché sussiste questo gap e perché non lo vediamo? Le cause sono sicuramente molteplici, ma probabilmente più incidenti di altre sono il prevalere di un approccio allo sviluppo digitale schiacciato sulla quantità di fibra stesa – quello per cui a tanti km di fibra ottica corrispondono tanti punti di PIL nuovi; la difficoltà delle PMI a capire come usare internet per modificare/innovare i propri processi e creare valore; il ritardo digitale delle istituzioni formative e politiche preposte a disegnare e orientare la formazione superiore, universitaria e post-universitaria.

Per colmare il buco digitale, favorendo occupazione e crescita di valore aziendale, è allora necessario agire su più piani.

A partire da un maggiore bilanciamento degli investimenti strutturali – secondo la logica “un euro in alfabetizzazione digitale per ogni euro in fibra” – e dalla differenziazione negli investimenti formativi stessi, con un adeguato investimento oltre che in ingegneri anche nelle figure di raccordo, traduzione e riuso interno delle innovazioni rese possibili dall’innovazione tecnologica [la fibra, le tecnologie di rete etc]. Per meglio illustrare questi punti prendiamo a prestito lo schema elaborato da BCG/ICANN per analizzare gli ostacoli allo sviluppo dell’economia digitale.

Secondo BCG gli ostacoli che si possono frapporre alla creazione di valore attraverso la rete sono di quattro tipi:

● Ostacoli infrastrutturali,● Ostacoli collegati alla mancanza di manodopera qualificata e capitali,● Ostacoli collegati alla sicurezza di dati e transazioni,● Ostacoli collegati alla mancanza di contenuti digitali in lingua.

Nel nostro paese l’accento viene posto con forza sulla rimozione degli ostacoli di natura infrastrutturale- attraverso la posa di banda, la creazione di datacenter, lo sviluppo e l’adattamento di tecnologie– ma manca una sensibilità analoga sul fronte dello sviluppo di manodopera qualificata, necessaria per rimuovere gli ostacoli degli altri tre tipi descritti.

Inoltre, a livello di dibattito e scelte formative il focus è posto quasi esclusivamente sulla creazione di pool adeguati di ingegneri informatici e sviluppatori, senza un’attenzione analoga rispetto alle figure che dovrebbero adattare, tradurre e raccogliere i risultati delle innovazioni dentro le mura aziendali.

Le figure che mancano all’appello sono numerose e diverse: analisti di big data, specialisti in ecommerce, specialisti in social media, progettisti di interazione, specialisti in Customer Relationship management, specialisti in ottimizzazione e marketing per i motori di ricerca, tecnici a supporto dei robot.

Un adeguato investimento formativo e culturale su tali figure offrirebbe un rilevante effetto-leva per lo sviluppo dell’economia digitale italiana.

Terzo, sarebbe imprescindibile aggiornare i repertori delle qualifiche occupazionali finanziate/finanziabili da parte degli enti locali in ambito digitale. I repertori delle Regioni, per esempio, prevedono ancor oggi la/il “tecnico/progettista multimediale” come unica figura di professionista umanistico in ambito internet.

Con il risultato che molti fondi formativi se ne vanno per banconisti e magazzinieri, contro nessuno per data scientist e manager digitali [né di banconisti e magazzinieri digitali].

Che fare a livello strategico

La prima e più importante priorità è l’investimento in formazione e alfabetizzazione digitale. Certo a favore degli studenti superiori e universitari ma pure per chi lavora e per le stesse élite (imprenditori, sindacalisti, decisori locali, giornalisti), che ancor oggi mostrano una comprensione molto variabile dell’impatto economico di internet. E a livello formativo ci vuole un investimento più cospicuo anche nella formazione di figure ulteriori rispetto agli ingegneri quali: analisti big data esperti di ecommerce, esperti di CRM, manager social media e simili (si veda per ricognizione completa l’elenco di professioni web-related stilato da IWA)

Che fare a livello operativo: l’elenco

Di seguito un primo elenco, giocoforza parziale e insufficiente, di misure economiche normative e organizzative tese a ridurre il gap descritto sopra:

Parziale copertura da parte dei soggetti competenti delle indennità di stage in relazione alle figure innovative, [da parte di Stato centrale, Regioni] secondo il modello dei Voucher di inserimento o di Garanzia Giovani [che allo stato corrente serve meglio disoccupati e NEET];

Messa a disposizione di spazi [scrivanie, wifi, sale riunioni], a livello comunale, regionale e superiore, a prezzo calmierato per favorire l’incontro, la permanenza e la istituzione di relazioni di business e sociali tra i giovani professionisti nei centri economici principali [ex: le città capoluogo] e nei centri principali delle aree montane;

Revisione dei profili inerenti le professioni collegate a internet nei Repertorii delle Qualifiche degli Assessorati competenti [ex: Assessorati alla Formazione Regionali] a partire ad esempio dal sopracitato elenco IWA;

Redazione di “identikit” relativi alle professioni emergenti insieme alle aziende del settore;

Potenziamento degli sgravi fiscali per i giovani professionisti che effettuano spese autoformative [master, corsi specializzazione, seminari formativi];

Organizzazione di seminari e cicli di seminari dedicati alle professioni digitali ed alle opportunità occupazionali ad esse collegate;

Creazione di equipollenze tra gli iter in azienda e gli iter formativi post- laurea; Organizzazione di momenti di mentoring tematico [per professioni e per comparto].

Siete d’accordo? Ci possiamo ragionare?

GIOVANNI ARATA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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