«Aggiorno, dunque non sono». È l’idea al centro del nuovo volume di Andrew Keen, ‘Vertigine digitale‘. Ma riassume un’intera corrente di pensiero, e un atteggiamento, nei confronti del rapporto tra io e social media. «Una difesa del mistero e della segretezza dell’esistenza individuale », scrive l’imprenditore digitale e autore del bestseller ‘Dilettanti.com’, illustrando lo scopo del suo libro. Contro «la raccapricciante tirannia di un social network sempre più trasparente che minaccia la libertà individuale, la felicità e forse perfino la personalità stessa dell’essere umano contemporaneo».
Parole durissime, che nel corso delle pagine assumono toni apocalittici («Piuttosto che il prossimo Rinascimento, l’era dell’intelligenza in rete potrebbe ricondurci invece ai secoli bui dell’Alto Medioevo»). E che si legano a un’insofferenza più vasta, che l’intrusività delle reti sociali esercita sulla nostra vita quotidiana, specie la nostra vita quotidiana di giornalisti e osservatori del presente.
Non stupisce dunque che si moltiplichino le esperienze di detox digitale, i periodi di astinenza da Facebook e Twitter. O, più radicalmente, da Internet.
Ci ha provato Paul Miller, di The Verge. Un anno lontano dalla rete. Ci hanno provato giornalisti ‘tradizionali’ come Beppe Severgnini, anche se solo per una settimana, e blogger come Suzukimaruti, per un mese. Più modestamente, ci ho provato anche io, resistendo 23 giorni. Esperienze diverse, frutto di vissuti e obiettivi diversi. Ma con conclusioni simili. E significative per replicare ai proclami catastrofisti di Keen.
Perché, tutto sommato, stare senza Internet ci fa stare meglio? Non sembrerebbe. «Mi sbagliavo», esordisce Miller ritrattando l’ipotesi di partenza: che stare giorno e notte in rete l’avesse reso «improduttivo», distratto, superficiale.
«E ora dovrei dirvi che ho risolto tutti i miei problemi», prosegue, «dovrei essere più ‘reale’, ora. Più perfetto».
Ma la sensazione di redimersi tramite la disconnessione è temporanea e illusoria, scrive Miller. Poco alla volta, alle «virtù offline» si associano i «vizi offline»: «invece di prendere noia e mancanza di stimoli e farne apprendimento e creatività, mi sono rifugiato nel consumo passivo e nell’esclusione sociale». Invece di fare più moto o vedere più amici in carne e ossa, il giornalista ammette di aver stazionato sul divano, a videogiocare e guardare la tv. Morale: inutile cercare il ‘vero’ Paul fuori dalla rete, perché il ‘vero’ Paul e il mondo ‘reale’ sono già inestricabilmente connessi a Internet».
«La verità è che non succede niente di rilevante», scrive Enrico Sola sul suo blog, Suzukimaruti.
«Sono quasi certo che queste settimane non mi abbiano insegnato nulla», annotavo io stesso sul mio diario alle 15.07 dell’ultimo giorno di astinenza. Certo, qualcosa si impara. A chiedersi con Sola perché mai abbiamo finito per identificare, a livello sociale, l’assentarsi «per un certo numero di giorni» dai social media all’avere dei «problemi», per esempio. O a sorprendersi per quanto scriviamo di getto, nella foga della condivisione: «Difficile credere che abbia scritto così tanto, mi sia esposto così tanto, sentenziato così tanto, espresso così tanti pareri su argomenti e questioni di cui non sapevo assolutamente nulla», scrivevo. «E difficile dire se la foga indotta dai social media a esprimere ed espormi mi abbia portato a capire più o meno, su quegli argomenti e quelle questioni».
Eppure non mi sembra di poter dire che da queste esperienze, pur limitate e anedottiche naturalmente, si possa ricavare l’idea che un periodo di disconnessione serva a comprendere meglio o vivere in maniera maggiormente consapevole la propria attività online. Non è nella disintossicazione digitale che si trovano le risposte ai quesiti di Keen. Non è con l’assenza che si cura questo strano eccesso di presenza. Perché il problema non è la presenza, e non è l’eccesso: è porre nel dimenticatoio le credenze che fanno di questi strumenti così utili e al contempo invasivi dei salvatori o dei cavalieri dell’apocalisse. All’«aggiorno dunque non sono» si può replicare con un altrettanto efficace e veritiero «non aggiorno dunque non sono». Semplicemente, aggiornare ed esistere non sembrano questioni così inscindibilmente legate.
Soprattutto, si tratta di imparare a dare dei confini ai problemi: il vero nemico delle soluzioni sono le generalizzazioni improprie. Perché sì, è affascinante dire, con Keen, che la versione contemporanea dell’orwelliano «2+2=5» è «Quanto fa +1 più +1». E però poi bisogna chiedersi in che modo e in quale misura esattamente Facebook o Google Plus possano essere equiparati al Partito (unico), la filosofia della condivisione all’IngSoc e il social networking a passeggiare in una cella della casa d’ispezione di Bentham, il Panopticon.
Solo a questo modo potremo capire davvero quanto rifiutare la tecnologia, anche se solo per un periodo (e già si rompe la metafora), equivalga a un gesto di liberazione e addirittura di felicità o riaffermazione del proprio sé: nel motto del sito thedigitaldetox.org, che organizza ritiri dall’informatica, «disconnect to reconnect». O se sia, piuttosto, una insostenibile leggerezza che tutto sommato non fa altro che riaffermarci interamente, pregi e difetti, lasciati in una chat su Facebook e riscoperti in una chiacchierata notturna tra amici.
Insomma, che l’era dei social media di massa ponga nuove catene al piede di noi comuni mortali è certamente vero. Ma che queste catene raggiungano la radice della nostra libertà, o addirittura precludano il «mistero» e la «segretezza» della nostra esistenza è tutto da dimostrare. E gli esprimenti sul campo non sembrano dare corpo all’ipotesi: il mistero, dovunque si manifesti, è intatto. E fortunatamente non c’è abbastanza trasparenza, apertura o condivisione per vincerlo.