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Altro che censura, il vero pericolo è nell’Internet delle cose

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Come tanti italiani all’estero, qualche volta mi capita, preso dalla nostalgia per il Bel Paese, di aver voglia di guardare un po’ di tv italiana. Chiamatemi masochista, ma ogni tanto sentir parlare italiano alla televisione aiuta a sentirsi a casa. Basta quindi andare sul sito della Rai, cercare le dirette ed ecco fatto: un bel messaggio ti ricorda che la Rai e’ visibile esclusivamente sul territorio nazionale. E così per le altre emittenti e anche per chi dall’Italia vuole vedere canali esteri.

Ma una soluzione esiste. O meglio: esisterebbe! Si chiamano proxy. Ora: io non sono un tecnico e non mi addentrerò in spiegazioni troppo cervellotiche sul come funzionano queste reti, ma quello che so è che, assieme ai vpn, vengono utilizzati per far perdere le proprie tracce online e in soprattutto per far apparire che il nostro device si connetta da un luogo diverso rispetto al quale siamo realmente.

Seguendo l’esempio del nostalgico italiano all’estero, utilizzando un proxy potrei far credere al sito della Rai che io mi stia connettendo dall’Italia oltrepassando così il blocco territoriale. Dico potrei, perché benché i proxy siano facilmente accessibili e molti siti offrano la possibilità di ri-direzionare la propria connessione, la velocità di connessione tramite questi è inevitabilmente molto bassa e non supporta, in molti casi, lo streaming in diretta.

Tra i tanti usi ludici che si possono fare dei proxy c’è anche la possibilità di connettersi alla famigerata rete TOR (una specie di “acque internazionali” in cui tutto è consentito) per poi entrare nel ben più famigerato Deep Web, o accedere a siti che magari il vostro governo ritiene inopportuni per voi.

Ad esempio, tra i paesi al mondo che utilizzano maggiormente proxy e vpn, c’è la Cina.

In cima alle motivazioni ci sono proprio l’accesso a siti di Social Media o di intrattenimento, come Netflix, bloccati nel paese. Son ben il 34% del totale degli utenti di Internet, in Cina, che utilizzano queste tecnologie per aggirare il Great Firewall of China, ovvero quel sistema escogitato dal governo cinese per tenere lontani i suoi cittadini dai pericoli del web.

Sistema quindi che poi così infallibile non è. E’ difficile calcolare il numero di persone che accedano a Facebook e Twitter in Cina, e le stime vengono spesso contestate, ma sicuramente sono molte di più di quelle che normalmente ci si aspetta e sicuramente molte di più di quanto ne sappia il governo cinese. Stime ufficiose parlano di 75 milioni di utenti per Facebook e 60 per quanto riguarda Twitter.

Ci troviamo quindi di fronte a una divergenza di prospettive.

Da un lato abbiamo un web che tende sempre di più ad aver il controllo sulle informazioni dei propri utenti. Dall’altro gli utenti si stanno darwinianamente adattando a questo sistema, cercando di eluderlo sempre di più.

Storicamente il proibizionismo ed il controllo hanno sempre prodotto scarsi risultati sul lungo termine, il più auspicabile dei quali è, a mio avviso, la propensione degli utenti ad aggirarlo. Tema di questa riflessione non è stabilire se e come serva avere un controllo sulle attività in rete, ma fornire un quadro della situazione che lasci al lettore il giudizio (che mi piacerebbe condivideste con me nei commenti).

Il problema della sicurezza della nostra privacy online è stato centrale nel corso del 2013. Linkedin, Yahoo e per ultimo Snapchat hanno avuto grossi problemi (a dir poco) a garantire la privacy dei propri utenti. Ma sono stati violati anche i database del colosso statunitense Target, tanto da averci potenzialmente rimesso milioni di dollari in rimborsi dovuti alle frodi a danno dei suoi clienti. Qui a Londra, invece, è già partita una campagna di sensibilizzazione per la protezione dei dati online promossa dal governo, con un investimento di 860 milioni di Sterline in comunicazione, che spera cosi di poter aumentare la consapevolezza sui potenziali rischi legati alla sicurezza dei propri dati.

Da un lato quindi la famigerata NSA ci spia, e dall’altro ci si inventa (ma farei meglio a dire “si commercializza”) il telefono in grado di non essere tracciato.

Da una parte si cerca di seguire gli utenti internet installando cookies (più o meno consapevolmente) nei computer, dall’altra i browser sviluppano sistemi di navigazione in incognito.

Dal punto di vista del marketing, raccogliamo sempre più informazioni riguardo ai consumatori online, ma a che scopo se gli utenti riescono comunque a farci perdere le loro tracce? Se poi consideriamo che, secondo una recente ricerca di Incapsula, il 30% del traffico Internet, esclusi i crawler dei motori di ricerca, non è umano, ne esce un bel quadro in cui l’immagine è tutto, meno che chiara e affidabile.

Esiste quindi una sorta di mano invisibile che ha spinto gli utenti ad adattarsi a metodi di controllo provenienti da sempre più parti. Il sistema si sta ribilanciando, e mentre molti di noi si sono rassegnati al fatto di non poter sfuggire alla morsa di controllo che viene esercitata sul web, si stanno diffondendo sempre più metodi per eluderlo, a dimostrazione che, ancora una volta, proibire non paga.

Nel frattempo la privacy online diventa anche un business, con tanto di compagnie che si occupano di monitorare l’immagine online dei propri clienti e di assicurarsi che i loro dati vengano protetti. Tunnelbear è un applicazione per browser mobile e PC che funziona esattamente come un vpn e conta un milione di utenti in 171 paesi. Secondo le stime di GlobalWebIndex, sono oltre 400 milioni gli utenti che al mondo fanno utilizzo di un proxy o di un vpn per accedere al Web, e ben 120 milioni lo fanno col preciso intento di difendere la propria privacy.

Quello che abbiamo di fronte è un braccio di ferro tra utenti e censori, e tra utenti e marketers.

A poco, quindi, servirà una legislazione uniforme, se non limiterà effettivamente la quantità di dati raccolti in maniera passiva (senza la reale consapevolezza degli utenti) e se non verranno create le basi per una fruizione del web più consapevole. Basi che devono necessariamente venire da un sistema educativo che oltretutto non può ignorare che una grossa fetta della popolazione con accesso alla rete è costituita da minorenni che devono essere formati

1) a diventare consapevoli dell’utilizzo dei propri dati,2) a non incorrere in pericoli di vario genere,3) a creare valore dall’utilizzo della rete.

La recente acquisizione di Nest da parte di Google ci ricorda che stiamo entrando nell’era dell’Internet of things, e che quindi presto device ed elettrodomestici inizieranno a raccogliere sempre più dati su di noi. L’integrazione tra software e hardware, che sottende l’Internet delle cose, creerà ancora più zone d’ombra in una legislazione che fa sempre più fatica a rimanere al passo con la tecnologia.

Non è più possibile stare a guardare ed aspettarsi che il sistema si bilanci automaticamente, altrimenti i risultati potrebbero risultare non ottimali ad uno sviluppo sano della rete e dei suoi utenti.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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