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Altro che hobby. Ecco come la condivisione diventa un lavoro vero

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Paolo affitta casa sua sui Navigli a Milano per 90 euro al giorno con Airbnb. In gennaio e febbraio (mesi non particolarmente affollati a Milano), Paolo ha prestato la sua casa per 20-30 giorni, guadagnando circa 1000-1500 euro al mese.

Melissa e Lele, invece, organizzano richiestissime cene fra sconosciuti a casa propria dal sito Ma’ Hidden Kitchen. A gennaio hanno organizzato quattro serate con 8 invitati alla volta prelevando 40 euro a persona. In un mese Melissa e Lele hanno guadagnato 1300 circa.

Matteo, invece, lavora a Milano e alla fine della settimana torna a casa a Treviso. In treno spendeva 80 euro andata e ritorno, da quando ha scoperto Blablacar ne paga 30 risparmiando, così, 200 euro al mese.

Che cosa hanno in comune i protagonisti di queste brevi storie? Tutti ricavano sfruttando a pieno ciò che possiedono (la casa e l’auto nel caso di Paolo e Matteo, le proprie abilità nel caso di Melissa e Lele), grazie a tutti quei servizi che mettono direttamente in contatto le persone per scambiare, condividere beni, tempo e competenze, e che rientrano in quella che viene definita la sharing economy.

In Italia non sono ancora in molti a guadagnare da queste piattaforme ma, in America e in altri paesi d’Europa, per molti cittadini questi servizi stanno diventando una fonte di reddito interessante. Complice la crisi, certo, ma anche per il desiderio di riappropriarsi del proprio tempo e di trovare forme di occupazione meno alienanti di quelle conosciute fin qui.

Secondo un recente studio di Airbnb, per esempio, l’80% dei proprietari che affitta attraverso la piattaforma, in UK, guadagna in media 5.600 euro l’anno; un autista part time di un servizio di ride-sharing come Lyft o Uber (condivisione corsa, come i taxi ma fra privati) porta a casa fino a 550 euro al mese; chi invece presta la propria auto con RelayRides può guadagnare fino a 800 euro al mese.

Li chiamano micro-imprenditori e sono in genere start upper, freelance, mamme, pensionati, ma anche impiegati. Utilizzano per la maggior parte (il 63% secondo lo studio di Airbnb) questo denaro per arrivare più serenamente a fine mese. Ma anche per impegnarsi in un lavoro che piace ma non offre un reddito sufficiente per arrivare a fine mese o per avere del tempo da dedicare ai propri figli.

“Coloro che si prendono carico del proprio tempo”, scriveva Leah Busque, fondatrice di Taskrabbit, sull’Huffington Post qualche tempo fa, “sono in grado di integrare perfettamente il lavoro con la propria vita, invece di cercare di trovare un equilibrio tra la vita e il lavoro che sono sempre in conflitto fra loro”.

Proprio come gli imprenditori, infatti, chi utilizza questi servizi gestisce il proprio tempo decidendo quando accettare un lavoro, un ospite, o dare un passaggio auto. E’ flessibile perché deve adattarsi alle richieste del mercato. E’ creativo perché può inventarsi continuamente diversi modi per sfruttare al meglio ciò che possiede.

Su Tabbid, per esempio, Emanuela, laureata in comunicazione di impresa e freelance si offre per aiutare nell’organizzazione di eventi, di feste o per fare shopping, ma al momento è stata ingaggiata per scrivere un comunicato stampa e per compilare una lista in excel. Flessibilità, creatività, gestione del proprio tempo, infatti, sono aggettivi che la formula del lavoro fisso non ha mai previsto. All’interno di un ufficio creatività e flessibilità sono sacrificate a favore di procedure, compromessi, caoticità, mentre la gestione del proprio tempo è ammessa solo fuori dagli orari di lavoro, quando la giornata è pressoché finita, e si è, spesso, troppo stanchi per dedicarsi agli altri (da qui la perdita di capitale sociale raccontata da Robert Putnam nel suo famoso libro “Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community”). In cambio, però, il lavoro fisso ci ha garantito sicurezza e protezione, proprio quello che questi servizi non offrono.

Come assicurare che un autista di un servizio di ride-sharing (che a breve arriverà anche in Italia), non lavori 10 ore al giorno? Come esser sicuri che chi affitta la propria casa paghi regolarmente le tasse? Come garantire che il cibo offerto sia sano e controllato? Di fronte a nuovi servizi ci vogliono nuove regole che favoriscano le opportunità ma che tutelino contemporaneamente chi le coglie e anche quelle categorie che questi servizi vanno a colpire.

Un buon esempio viene da Amsterdam. Qualche giorno fa il Comune della città ha approvato un nuovo regolamento che concede ai suoi residenti di affittare i loro appartamenti con Airbnb fino a un massimo di due mesi l’anno, facendo pagare le tasse di soggiorno agli ospiti. In questo modo si distingue chiaramente l’occasionalità della permanenza dalla continuità. Chi presta la propria abitazione per due mesi può avere delle agevolazioni fiscali e normative, chi invece l’affitta regolarmente ha gli obblighi – e le garanzie – degli affittuari regolari. In questo modo si evita la concorrenza sleale con gli albergatori e si garantisce la regolarità del servizio.

Favorendo l’occasionalità si evita anche di snaturare il valore dei servizi collaborativi che sono nati per mettere in contatto privati con privati e non strutture con privati da cui deriva tutta un’altra esperienza. Altre soluzioni possono sicuramente trovarsi, l’importante è cercarle. E in questo senso si fa appello alle amministrazioni ma anche alle start up chiedendo loro di tener presente nel modello di business anche la regolamentazione del servizio, magari valutando soluzioni alternative nella configurazione dell’impresa. Janelle Orsi in questo articolo invita Airbnb a ripensarsi come cooperativa. Se questa è un’ovvia provocazione, potrebbe non esserlo per alcuni nuovi servizi oppure per imprese sociali che desiderano ripensare il proprio modello di servizio. Configurarsi come cooperativa aiuterebbe a offrire alle persone garanzie e sicurezza e nello stesso tempo a cogliere l’opportunità offerte dalla sharing economy. Mettiamoci al lavoro!

1 marzo 2014Marta Mainieri

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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