Apprendisti stregoni del digitale, abbiamo collegato i computer su cui Internet doveva viaggiare

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Ero ricercatore al CNUCE già da una decina di anni, ma quella data, il 30 aprile 1986, non si è fissata nella mia memoria. Né avrebbe potuto perché non ho mai lavorato nel settore delle reti anche se ho avuto a che farci.

I miei ricordi riguardano le attività degli anni precedenti che hanno determinato la scelta del CNUCE come partner italiano per Satnet.

Che ci si occupasse di reti lo si capiva subito entrando al CNUCE: una delle componenti dell’Istituto era la Sezione Reti e i cosidetti “retaioli” pensavano a quanto fosse bello collegare tra loro due calcolatori, probabilmente senza saperne il perché.

Negli anni ’70, non era molto chiaro a cosa potesse servire una rete e i “computer scientists” sviluppavano piuttosto studi teorici.

Mi sono reso conto molto tempo dopo, che la conoscenza degli studi dei colleghi, ha influenzato in modo insospettabile parte della mia personale cultura digitale.

Come dire che la cultura si forma con la conoscenza e molto meno con le competenze, che seppur necessarie a qualche livello, forniscono una visione locale in un orizzonte chiuso. Enfatizzare la formazione delle competenze non è probabilmente la scelta migliore.

Ecco come ho capito che le reti erano importanti

Ricordo di avere percepito l’utilità delle reti lavorando nel team del progetto per il lancio del satellite Sirio nella seconda metà degli anni ’70.

La NASA aveva una rete di stazioni interconnesse per il tracciamento di (quasi) tutto quello che volava. Le stazioni di terra (“tante Fucino” sparse per il continente) si passavano il controllo quando una acquisiva un satellite e l’altra lo perdeva di vista, inviando i dati orbitali ad un centro di controllo, che per il Sirio era al Goddard Space Flight Center in Maryland.

Noi del CNUCE dovevamo replicare il sistema della NASA per essere operativi quando il controllo della missione fosse passato dal Goddard a Pisa.

Al proposito fiorirono leggende al limite dell’incidente diplomatico: si vociferava di auto piene di nastri di software trafugato e spedito in Italia.

Non fu un furto, ma un duro lavoro di conversione per poter eseguire quei programmi americani sui sistemi del CNUCE, più moderni di quelli della NASA. E questa fu una grossa delusione. Chissà che cosa mi aspettavo di trovare dove si era sbarcati sulla Luna! La cosa che in Italia non si poteva replicare era la connessione con il satellite per acquisire i dati di telemetria. La prima idea “idiota” fu del tipo “mettiamo un’antenna sul tetto del CNUCE” ma si capì subito che non era il caso.

Così si approfittò della stazione di Telespazio al Fucino le cui antenne erano già puntate sul Sirio per registrare i dati sperimentali. Ma come farli arrivare a Pisa?

Furono gli allora giovani Paolo Guidotti e Nedo Celandroni a far comunicare un PDP-11 di Telespazio con il 370/168 del CNUCE in tempo reale su linea dedicata: un vero e proprio downlink di una rete satellitare! I dati di telemetria saturavano in un giorno di trasmissione un intero disco IBM 3330, capace di memorizzare ben 500MB nell’ingombro di una lavastoviglie (altri tempi, altri accrocchi!).

Ogni giorno bisognava trasferire i dati da disco a nastro per analisi future. Ricordo che fu anche avanzata una proposta per realizzare una banca dati “open” per chi volesse studiare il comportamento del satellite.

Terminata l’esperienza del Sirio, al CNUCE si costituì un gruppo di ricerca su Analisi di Architetture di Sistemi. In quell’ambito (era il 1985) stendemmo una rete di workstation Apollo con tipologia ad anello.

Il sistema operativo nativo delle workstation Apollo era Aegis, un sistema di rete con funzionalità ancor oggi insuperate, ma si potevano utilizzare anche due versioni Unix, BSD e System V. Il protocollo di rete era il TCP/IP.

Successivamente, il trio di tecnici, Zini-Mannocci-Bettarini, realizzò la prima rete locale interna al CNUCE stendendo lo storico “giallone” Ethernet, un cavo coassiale del diametro di circa un centimetro che si snodava lungo l’edificio come una specie di serpentone ininterrotto per 400 metri. Il collegamento delle singole stazioni avveniva per mezzo di speciali connettori, detti “transceiver”, che si fissavano sul cavo coassiale e lo perforavano creando un contatto con i vari strati di materiale all’interno del cavo stesso.

Fu poi realizzata una connessione tra la rete locale ed il ring Apollo, utilizzando un “bridge” DEC e cioè un dispositivo in grado di collegare tra di loro due o più reti (solitamente delle LAN) in modo da farle comunicare tra di loro.

Nonostante queste attività da apprendisti stregoni, le reti non furono mai l’oggetto di studio delle nostre ricerche.

Viceversa si “giocava” sviluppando algoritmi di calcolo, tipo la computazione distribuita dell’insieme di Mandelbrot. In effetti, le reti nello studio delle nostre architetture sono sempre state quella nuvoletta che non si sapeva come funzionasse, ma che si dava per scontato fosse capace di trasferire dati da una componente all’altra di un sistema.

Avevo peró avuto il tempo di scrivere, in un articolo del 1984, “Large scale applications require the integration of logical and physical resources (i.e. systems) to be mainly operated by non programmers. In many cases this integration is obtained by gathering in a computer network the different systems which are part of the application itself. The Reference Model of Open Systems Interconnection (OSI) provides a common basis for the coordination of standards developments for the systems interconnection….” Il target tecnologico era del tutto sbagliato (l’OSI non é riuscita a prevalere nonostante il sostegno “accademico”) ma la mia visione, che in fondo prescindeva dai protocolli, era buona!

Che cosa resta oggi dell’esperienza di quel periodo storico? Penso un uso responsabile delle competenze digitali di base e cioè quello che la Commissione Europea ha adottato come definizione di “cultura digitale”.

Apprezzo il digitale per le opportunità ed i servizi che offre, faccio home-banking e dichiarazione dei redditi, pago tasse, bollette e balzelli vari, acquisto prodotti on line, ma non vivo connesso.

Non possiedo uno smartphone e neppure un tablet, abito in una casa cablata con cavo RJ45 senza ricorrere al WiFi. Penso che relativamente poche persone abbiano necessità di vivere perennemente on-line: in fondo, non si possono fare cose tanto diverse da quelle che si potevano fare 20 o 30 anni fa, sono solo cambiate le risorse disponibili, la velocità e la base di utenza!

GIORGIO FACONTI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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