Quando durante l’estate abbiamo cominciato a lavorare sull’epidemia di ebola ero convinto che sarebbe stato solo una momentanea diversione dal lavoro di ricerca del mio laboratorio. Lavorando allo sviluppo di metodi computazionali per le previsione della diffusione di epidemie era normale offrire il nostro contributo all’analisi di una epidemia di cui non si capiva completamente la dinamica. Ma ero anche convinto che uno sforzo internazionale ben coordinato avrebbe presto condotto ad una decelerazione dell’epidemia, e infine alla eradicazione del virus. Invece dopo due mesi ci troviamo di fronte ad una situazione assolutamente disastrosa in Africa Occidentale (circa 9.000 casi e 4.000 decessi) e alle prese con i primi casi negli Stati Uniti. Come si è potuti arrivare a questa situazione? Cosa non abbiamo capito o sottovalutato?
Ovviamente un’epidemia in Africa Occidentale non è facile da comprendere.
I dati non fluiscono dettagliati e puntuali. L’epidemia si è mossa attraverso zone rurali di difficile accesso per poi giungere alle grandi città di Paesi in cui il sistema sanitario è debolissimo. Però abbiamo anche potuto fare leva su tecnologie e dati che solo dieci anni non avremmo neanche sognato di avere. HealthMap, una piattaforma aggregativa di notizie, report online e comunicazioni di volontari, è riuscita a identificare l’inizio dell’epidemia nove giorni prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS lanciasse il suo primo “allerta”. Le tracce di telefonia cellulare e le dettagliate mappe di popolazione messe a disposizione dal progetto WorldPop permettono per la prima volta di costruire popolazioni sintetiche per la modellizzazione computazionale del corso dell’epidemia in zone di cui fino a poco tempo fa non si conosceva nulla.
Allo stesso modo i dati di mobilità globale permettono di analizzare il rischio di internazionalizzazione dell’epidemia.
Paradossalmente, nonostante tutte le difficoltà di lavorare in una zona non tecnologicamente avanzata del pianeta, non sono le informazioni e la comprensione di quello che sta avvenendo in quei Paesi ad essere il grande ostacolo per battere questa epidemia. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una mancanza di volontà politica.
Fino a questo momento molti Paesi hanno visto questa epidemia solo come uno dei tanti problemi che affliggono alcune parti dell’Africa. Un problema remoto, per il quale la piccola donazione di qualche milione di euro allieva le coscienze nazionali (mi preme notare che Mark Zuckerberg ha fatto una donazione per combattere Ebola molto più generosa di una grande parte dei Paesi della comunità europea).
Questa miopia politica si è appoggiata inizialmente ad argomenti del tipo “ma cosa sono mille morti quando in Africa ogni anno ci sono un milione di morti di malaria”. Purtroppo, bastava domandare a qualunque esperto per farsi dire che le malattie trasmissibili acute hanno un altro corso dalle malattie endemiche. Un corso esponenziale che se non controllato genera milioni di casi e raggiunge dimensioni pandemiche. Un’inerzia politica basata anche su asserzioni ingiustificate del tipo “da noi ebola ha probabilità zero di arrivare”. Nessun esperto lo ha mai detto, ma io lo ho sentito dire in diverse sedi di decisione politica. Anche ora che i casi americani hanno risvegliato l’attenzione di tutti i governi, il dibattito si concentra unicamente sui temi del “chiudiamo le frontiere”, “limitiamo I voli” e “facciamo screening dei passeggeri”. Questi sono certamente temi che vanno affrontati e per i quali esistono informazioni e modelli estremamente quantitativi ma non si deve perdere di vista che il problema vero è vincere la battaglia contro Ebola in Africa.
L’unico modo per evitare che questa epidemia diventi un minaccia globale è di concentrare le risorse nei paesi colpiti dall’epidemia. Se non si vince quella battaglia, l’epidemia è destinata ad allargarsi ad altri paesi e a farsi sempre più minacciosa.
Una battaglia che va vinta prima di tutto con la razionalità. Non bisogna essere preoccupati per i prossimi due o tre mesi. Certo vedremo comparire dei casi di ebola in altri Paesi. Bisognerà essere preparati ma l’isterismo è fuori luogo. Quello che bisogna invece riconoscere è la minaccia a lungo termine. Tra cinque o sei mesi, se l’epidemia in Africa sarà sfuggita al nostro controllo, ci troveremo con milioni di casi di ebola e un potenziale pandemico enorme. Per questo motivo gli Stati Uniti hanno definito ebola una minaccia alla sicurezza nazionale ben prima che ebola arrivasse in Texas. Tutta la comunità Internazionale dovrebbe fare lo stesso. Perché le minacce alla sicurezza nazionale si combattono con la guerra. Ed è giunto il momento di dichiarare guerra ad ebola senza lesinare denaro, uomini e risorse.