Ascoltare prima di scrivere e altri consigli in tweet per fare storytelling

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“Scrittori, voi siete in tanti a scrivere, ma io sono solo a leggere”. Era questo il grido disperato di Massimo Troisi nella sua battaglia contro la proliferazione di contenuti di ogni sorta, in un celebre passaggio della pellicola “Non ci resta che piangere” del 1984. D’altronde “aumentano il numero di canali con una frammentazione di un pubblico sempre più evidente, ma non aumenta il numero di spettatori disponibili”, come sottolineava pochi giorni fa Antonio Dipollina su Repubblica. In realtà il giornalista si riferiva al mondo della televisione digitale e satellitare, ma questo discorso potrebbe essere speculare anche a quello della rete.

In fondo stiamo vivendo una moltiplicazione di scritti, testi, storie che rimbalzano nelle galassie dei social media a suon di post o tweet

E allora come orientarsi? Come prepararsi al meglio? Come distinguersi in questo agone digitale dove spesso ci si arma gli uni contro gli altri? Armarsi e in fondo proteggersi allo stesso tempo: è di pochi giorni fa il messaggio del CEO di Twitter Dick Costolo a proposito del proliferare degli insulti sul “suo” social network in centoquaranta caratteri.

Credits: Blog.innovationlabs.ro

Così proprio di storytelling – e in fondo della capacità di scrivere per il web e per i social – abbiamo provato a ragionare all’università di Bologna, in un meeting che ha lanciato la nuova edizione dei Teletopi, gli oscar del videostorytelling. Una riflessione sul racconto delle storie in rete ragionando sugli strumenti, sui canali di distribuzione, sui pubblici ai quali ci si rivolge e sulle nuove dinamiche del consumo digitale che si sta frammentando in mille rivoli. Il contest, giunto all’ottava edizione, col 2015 analizza e premia i migliori progetti di videostorytelling che riguardano i brand (multinazionali e piccole e medie imprese), il Terzo Settore, le Pubblica Amministrazioni o le imprese editoriali che fanno informazione online.

Professione storyteller, con un’attenzione ad intercettare la propria community: per posizionarsi sul web – e sempre più spesso anche per vendere prodotti o servizi – occorre diventare dei narratori.

Perché “i consumatori non si preoccupano di te, si preoccupano principalmente di loro stessi. E un brand è meglio spiegato se narrato grazie alle storie. Quando si racconta la storia dell’azienda, si diventa più facilmente riconoscibili, ci si distingue, si eccelle”, cosi ha scritto Dave Kerpen, CEO di Likeable e columnist per il New York Times.

Un frammento del video Lego Story promosso dall’azienda danese. Credits: Refinedguy.com

Che poi raccontare storie significa raccontarsi. Non promuoversi, ma presentarsi. Non vendere un brand, ma un’emozione. Non fare monologhi, ma costruire conversazioni e quindi dialoghi con il proprio pubblico. A patto però che questa storia sia credibile, personale, avvincente. Anche perché come ha scritto Seth Godin, “la maggior parte delle organizzazioni dedica il proprio tempo a vendere a una folla, mentre le aziende più accorte riuniscono tribù”.

Ecco perché le storie in fondo veicolano emozioni, posizionano brand, creano nuove alleanze

La nuova tendenza della comunicazione digitale è sempre più connessa al racconto di storie. Per una multinazionale, una Pubblica Amministrazione o una ONG tutto ciò diventa strategico per aggregare comunità, posizionarsi e in qualche modo veicolare una vision o il proprio brand. E oggi le nuove tecnologie consentono di creare narrazioni interattive e social. Ed ecco i brand di successo che iniziano a proporre in modo seriale e strutturato progetti legati al social storytelling.

Così in questo post ho provato a isolare cinque spunti di riflessione sullo storytelling, tutti in tweet riferiti proprio ai lavori legati al lancio dei Teletopi 2015. Considerateli dei consigli in centoquaranta caratteri, una sorta di tips-tweet.

Tip-tweet 1: ascolto, ascolto, ascolto. Ecco, la chiave per chi lavora nei media digitali non è paradossalmente parlare o scrivere di più, ma ascoltare. In modo ossessivo, puntuale, autentico. In modo strutturato. Poche settimane fa proprio dalle colonne di Che Futuro! Angela Morelli ci ha spiegato che l’ascolto deve essere un mantra per chi scrive e che lo storylistening deve diventare la nostra bussola per fare del buon storytelling. E’ un tema di attenzione anche sugli strumenti usati al meglio e in logica social.

Negli anni della comunicazione visiva lo storytelling vira verso nuovi strumenti, complice una diffusione più pervasiva anche dei social network fotografici, in testa Instagram e Pinterest Una storia di successo arriva da Oltreoceano. In America una catena di ristoranti di cucina latino-americana chiamata Comodo e situata a Manhattan ha deciso di trasferire su Instagram il menù. Il ristorante ha inserito l’hashtag #ComodoMenu nella parte inferiore del suo menù, incoraggiando gli ospiti ad aggiungere, condividere e controllare le foto dei piatti. Ne è uscito fuori in pochi mesi un grande racconto fotografico collettivo.

Tip-tweet 2: puntare al pubblico, al destinatario. E tutto questo in un’ottica di relazione. Già Jeff Jarvis ha dichiarato che “i media dovrebbero investire nel business delle relazioni, e non soltanto in quello dei contenuti”. La generazione degli storyteller deve immedesimarsi nel pubblico al quale ci si rivolge. E la chiave deve essere necessariamente il destinatario. Qualche mese fa Forbes elaborò un decalogo che esordiva proprio con il concetto di onestà, trasparenza. Per poi proseguire sulla centralità della costruzione di storie per un’audience specifica, distillando di fatto gli elementi nella narrazione nel percorso di svelamento della storia.

Tip-tweet 3: content is king, diceva qualcuno molti anni fa. E vale ancora di più nello storytelling. Perché la rete si sta verticalizzando, tematizzando, di fatto aggregando per community sempre più specifiche e molto specializzate. Chi cerca conversazioni con informazioni a valore aggiunto non si accontenta (o non dovrebbe accontentarsi) di una narrazione di impatto e basta. Occorre qualcos’altro.

Tip-tweet 4: da dove passa il futuro dello storytelling? Quale contenuto prediligere e su quale formato? In realtà l’esperienza sul campo ci sta dimostrando come di fatto ogni pubblico e destinatario ha necessità di rintracciare il proprio contenuto specifico, e di fatto quello stesso pubblico, a seconda di una fruizione in mobilità piuttosto che di approfondimento, prediligerà un formato di lettura ad un altro. E’ una diversificazione che è prassi nel campo digitale, e va di pari passo con la maturità delle piattaforme. Nel suo Visual Network Index Cisco stima che nel 2018 la rete sarà “attraversata” da circa un milione di minuti di contenuti video al secondo. Se nel 2013 lo streaming è stato responsabile del 66% del traffico dati globale, nel 2018 la rete sarà occupata per il 79% da dati video.

Tip-tweet 5: è una questione di preparazione, di studio, di costruzione dell’architettura progettuale. Non ci si improvvisa storyteller, e la preparazione – unita ad una buona conoscenza pratica della rete – consente di operare al meglio. Un’attività che si sviluppa in fase di analisi di progetto, quella famosa azione di ascolto e mappatura, per poi arrivare ad un progetto strutturato e sempre più spesso crossmediale (ovvero che abbraccia più piattaforme), e poi concludersi in una analisi anche quali-quantitativa.

Che sia un racconto corale, un messaggio di centoquaranta caratteri con hashtag, un instant-book o un poster valoriale, lo storytelling migliora le relazioni. E in molti casi anche il business. Ma il consiglio è quello di abbracciarlo con un respiro a medio-lungo termine. Perché per essere efficace occorre avere pazienza e prendersi il proprio tempo. Anche se in questi anni di stream, e in fondo di flusso ininterrotto, questo ennesimo consiglio potrebbe sembrare un paradosso.

GIAMPAOLO COLLETTI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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