Il termine innovazione sociale può avere molti sensi. Infatti può significare semplicemente un’ innovazione socializzata che crea nuovi sapere tecnici o organizzativi; ma anche un’ innovazione sociale, ossia un approccio pragmatico ai problemi sociali, che applica tecniche manageriali per risolvere problemi nel presente, senza badare molto all’orizzonte ideologico o alla correttezza politica. Innovazione sociale implica anche l’impiego di nuove tecnologie e, soprattutto, di nuove forme organizzative.
Dove l’organizzazione dal basso convive con una socialità di rete e dove le stesse relazioni sociali diventano strumenti da mobilizzare nell’attività imprenditoriale; dove nel bene e nel male le differenze fra vita lavorativa, vita politica e vita privata tendono a scomparire. In questo senso innovazione sociale comporta un nuovo modo di organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’ impegno politico, vita activa, un modo dove – per usare la terminologia di Hannah Arendt – le potenzialità della vita vengono messe all’ opera in un impegno di natura etica e non morale.
Quindi, e soprattutto, l’innovazione sociale è un candidato promettente per una necessaria riorganizzazione delle relazioni produttive e sociali. Noi siamo in un periodo di crisi e di stasi. Questa crisi è dovuta in gran parte alla nostra incapacità di creare una struttura sociale adatta a sfruttare la produttività delle tecnologie d’informazione e comunicazione. È dagli anni settanta che le fabbriche sono robotizzate, ma producono sempre le stesse cose, ed è dagli anni novanta che abbiamo internet, ma rimane in gran parte un medium pubblicitario.
Siamo ancora dentro al paradigma consumistico, quello nato negli anni ’30 come risposta a una crisi, essenzialmente a una crisi di sovrapproduzione industriale. Ma la nostra crisi è un’altra crisi: il paradigma consumistico non solo non può contenere la nuova produttività che risulta da processi produttivi computerizzati, ma non è più sostenibile da un punto di vista energetico e ambientale.
Per andare avanti dobbiamo ripensare tutto in modo radicale ma, soprattutto, dobbiamo cominciare ad assaltare gli intoccabili!
Non possiamo aspettarci che il futuro sarà come il passato: dobbiamo ripensare i nostri sistemi di produzione materiale in un modo che integra il riciclo e il recupero come un elemento centrale, dobbiamo ripensare i nostri sistemi di trasporto, di produzione energetica, di produzione e consumo agroalimentare. È improbabile che le nuove idee che potranno guidarci in questa impresa vengano dall’alto, dai politici, dagli intellettuali, dai partiti, dalla chiesa. L’innovazione sociale ci mostra una altra strada basata su una moltitudine di iniziative dal basso, di esperimenti quotidiani, di buone pratiche che se vogliamo si sviluppino al massimo dobbiamo ripensare radicalmente alcune categorie della mente, alcune istituzioni, alcuni status quo che continuiamo a dare per scontati.
Non vi parlerò di accesso al credito, lobby politiche, notai, banche, ecc. Troppo facile. Mi fa piacere riflettere con voi su che futuro sia possibile azzardando alcune provocazioni.
Università: chiudere le università così come le conosciamo; lasciare dei grandi poli d’eccellenza collegati in rete tra di loro e trasformare tutto il resto in agenzie di sviluppo territoriale che possano fare da mediazione tra i poli ed il territorio. In questi anni ho visto migliaia di inutili tesi sul marketing delle multinazionali, impolverate e non lette da nessuno, nelle più improbabili università di provincia. Ore ed ore di di lavoro dei ragazzi buttati. Ore che potrebbero essere utilizzate in analisi sul territorio, sulle imprese familiari. E mi limito al marketing, lo stesso valga con altre facoltà o corsi di Laurea. L’università stessa potrebbe collaborare con i venture capitalist e fare da incubatore e sostenendo il mentoring e tutte quelli che oggi sono costi di consulenza per l’apertura e l’avviamento di nuove startup.
Città e comunità locali: diversificare i regolamenti tra metropoli e comunità locali magari aggregate per affinità paesaggistiche, culturali ed economiche. Saranno le piccole comunità gli incubatori di buone pratiche che potranno avviare processi di innovazione utili a suggerirci vie d’uscita dal fallimento del presente. Se ci aspettiamo un nuovo governo superman che riesca a fare piazza pulita in un solo colpo ci stiamo sbagliando. E meno male, visto che questo non sarebbe possibile in democrazia.
Ed allora? Beh, cominciare a poter permettere tutto quello che esplicitamente la legge non vieta, come ad esempio dare la possibilità ai piccoli centri di poter mettere in gioco economie alternative: la Fondazione X potrebbe scegliere di pagare l’equivalente della TARSU in tot ore di giardinaggio, e così via. Oppure promuovere meccanismi di finanza comunitaria, dove lo stato investe in progetti di innovazione sociale volti a recuperare aree dismesse o degradate in modo da poter guadagnare sull’aumento del valore del mercato immobiliare (questo si fa già in molti paesi europei).
Valore: sostenere la ricerca (noi ci stiamo lavorando con il gruppo di ricerca www.societing.org) sulla misurazione dell’impatto sociale dell’impresa che può essere ridistribuito come sgravio fiscale all’impresa stessa. Se la mia impresa, oltre a risolvere un problema di business, risolve anche un problema nella società sgravandone i costi alla pubblica amministrazione è giusto che questo valore mi vengo materialmente riconosciuto. Non vi basta? Ok allora continuo a delirare invitandovi a (ri)pensare ad alcune categorie fondanti del nostro pensiero e di come sia necessario scardinare la loro costituzione per dare via a reali processi di innovazione.
Tempo: con la fine del progetto illuminista è finito il concetto di tempo lineare. Il tempo non è più un continuo divenire cronologico, non è il ritmo scandito dalle fabbriche e dai palinsesti televisivi. Con la fine di questa concezione del tempo, finisce anche il concetto di futuro così come lo abbiamo appreso nella modernità. Non necessariamente nel futuro e nelle smart city varrà la gara a chi ha il gadget tecnologico più lungo. Il tempo è sempre più una scelta, una possibilità. Ed in questa ottica vale l’invito a ripensare ad una innovazione che fermi lo sguardo al passato, non in maniera conservatrice, ma per recuperare qualche elemento necessario alla nostra sopravvivenza che nella corsa verso il progresso abbiamo perso. Innovazione è anche ripensare a come utilizzare reti e tecnologie per migliorare la pesca delle alici a Cetara, il mercato delle nocciole a Giffoni, il patrimonio culturale dell’Italia tutta e la rete delle economie locali ad essi collegate.
Spazio: ripensare non solo allo spazio urbano come spazio di infiniti livelli di relazioni possibili. Ma anche a tutti i possibili spazi di relazione come il contesto complesso con cui fare i conti. Le imprese diventano sempre più aperte, si costituiscono sempre più come dei network sociali e questo comporta nuove forme di legami e di responsabilità verso quel sociale da cui sempre di più deriva il loro valore. Questo implica la necessità di una nuova filosofia, non solo di mercato, ma delle imprese nella loro totalità: noi la chiamiamo societing. Lavorare e regolamentare quindi le comunità locali, ma anche quelle d’interesse, di scambio. Cercando di stabilire criteri di affinità il quanto più possibile affini non solo per contenuti (idee, opinioni, visioni del mondo) ma per processi (flussi, modalità). Il solo modo, in un mondo sempre più piccolo, di vivere una accettazione tragica del conflitto che vada al di là di vincitori e vinti.
Non è un caso che questo mio deliro capiti oggi, nei giorni in cui quella delle startup e dell’innovazione sociale rischia di diventare una nuova ideologia a sostegno degli ultimi rantoli di un immaginario ormai vecchio e decadente. La produzione di saperi e di soluzioni non è più il privilegio delle istituzioni. Non saranno solo le istituzioni a trovare le soluzioni di cui abbiamo bisogno per superare il difficile periodo di transizione che ci aspetta.
Queste verranno dal basso, da milioni di piccoli imprenditori, inventori, cittadini competenti, hacker e scienziati-amatori. In questo mio primo delirio (ce ne saranno altri?) ho trattato temi parziali e per qualcuno fuori da ogni schema razionale lo so. Ma il mio invito è rivolto a tutti voi ed è ancora quello di assaltare gli intoccabili: di lavorare insieme ad una nuova epica, di lavorare insieme per creare nuovi miti a cui ispirarci ed ispirare. Scrivete sui vostri social network, parlate, delirate in pubblico. Pubblicate idee e pensieri che siano realmente fuori dagli schemi e non cercate nel presente soluzioni per il futuro. Giocate tra di voi ad immettere semi di vera innovazione nel terreno fertile della infosfera.
Finalmente è venuta a manifestarsi la necessità di lavorare con i legami sociali, di fare società instaurando nuove relazioni produttive che riescano sia a contribuire al bene comune, sia a generare quella legittimità e quell’entusiasmo necessari per il funzionamento e la competitività delle imprese e del sistema economico nel suo insieme. Questa necessità sta emergendo come un modo di aprire nuove fonti di valore e come un imperativo centrale per la sopravvivenza a lungo termine: sfruttare le capacità di organizzare processi di produzione -materiali e immateriali- che coinvolgono una larga moltitudine di attori, fra cui soprattutto i cittadini stessi.
Facciamo in modo che parole come startup e innovazione sociale non diventino l’ennesimo hype utile a legittimare l’ennesima propaganda. Questa volta non è solo una questione di mercato, ma di politica. Sappiamo già cos’è che non va e che cos’è che vogliamo. È in questa stessa società che sembra dilaniata che invece ci sono già i semi della sua rinascita. Chiudo con un invito a politici, bancari, giornalisti, decisori: di ideologie non abbiamo bisogno, ci servono piuttosto strumenti. Lavoriamo tutti in questa direzione, vi prego.