Vivo a Bruxelles dal 2012. È una città che ho imparato ad amare. Non bella nel senso in cui lo sono Parigi, Stoccolma o Roma, ma bella da vivere. Scanzonata, ironica, multiculturale, è un posto dove ti senti libero. Si parlano tutte le lingue, ci passano tutti – dagli eurocrati agli artisti, da Juncker a Stromae – e parecchi si fermano, e tutti sono benvenuti. I bar sono sempre pieni, i tavoli all’aperto occupati al primo raggio di sole (e spesso anche senza). È una capitale europea, ma è normale attaccare discorso con gli sconosciuti.
Oggi Bruxelles è una città in sofferenza. Tutti sappiamo che alcuni dei terroristi colpevoli degli attacchi di Parigi hanno legami con Bruxelles; uno di loro, Salah Abdeslam, abitava qui, in un quartiere che si chiama Saint Jean-Molenbeek.
La polizia belga sospetta che la città ospiti una rete di sostegno ai jihadisti di Parigi, e che essa costituisca un pericolo immediato per i bruxellesi. Quindi, da sabato 21, la regione Bruxelles-Capitale è stata posta in uno stato di massima allerta. Le autorità hanno chiuso le scuole, la metropolitana e i mercati settimanali amatissimi dai bruxellesi; e fortemente consigliato di annullare gli eventi culturali e sportivi che possano radunare grandi folle, e chiudere negozi e uffici. La città è in LockDown: sotto chiave.
Suona terribile, e lo è. Siamo tutti molto preoccupati, non tanto perché temiamo i terroristi (la probabilità di morire a causa di un attacco terrorista è di uno su nove milioni; siccome Bruxelles ha circa un milione di abitanti, statisticamente qui non morirà nessuno), ma perché temiamo che divieti e senso di insicurezza strappino il tessuto di quella socialità rilassata che rende Bruxelles un buon posto per vivere, sostituendola con una specie di anni di piombo in salsa belga.
Questo è certamente uno degli obiettivi dei terroristi: “Non vivrete mai in pace, nemmeno quando andate a fare la spesa al mercato” ha minacciato Daesch da uno dei suoi account Twitter in lingua francese dopo gli attacchi di Parigi.
Creatività vs paura
Ma i terroristi stanno mancando clamorosamente l’obiettivo. Non hanno fatto i conti con i bruxellesi, e la loro capacità di fare dell’ironia un punto di coesione della loro – anzi, della nostra – società. Lo si è visto domenica 22 novembre: al culmine del LockDown la polizia ha chiesto ai cittadini di non diffondere sui social media informazioni circa quanto stava succedendo in città.
L’idea aveva un suo senso: se tu guardi fuori dalla finestra, vedi che la polizia sta effettuando una perquisizione, e twitti OMG! Perquisizione in Avenue du Roi! rischi di mettere sull’avviso le persone ricercate.
Però è anche un’idea inquietante, sa di limitazione della libertà di espressione, di stato di polizia. Come comportarsi? A prima vista, le due alternative sono obbedire (il che è inquietante) o ribellarsi (il che rischia di essere controproducente). Entrambe sono divisive: dal loro punto di vista, gli obbedienti avrebbero motivo di accusare i ribelli di irresponsabilità; i ribelli, dal loro, rimprovererebbero agli obbedienti di scambiare libertà per sicurezza, e quindi non meritare né l’una né l’altra.
I belgi hanno trovato una terza soluzione: inondare Twitter di foto di gatti, associati all’hashtag #BrusselsLockDown.
Può sembrare una cosa infantile, ma più ci penso più mi convinco che è stato un colpo di genio. Perché:
- Ha fornito un canale semplice e umano di interazione intorno al dramma del LockDown per tutti, bruxellesi e no. Come un falò elettronico in una notte fredda, #BrusselsLockDown è stato un luogo virtuale dove fermarsi a scaldarsi le mani, scambiando saluti, strette di mano e cenni di intesa con decine di migliaia di sconosciuti che vivevano la stessa situazione. Io avrei voluto uscire, cercare la compagnia di altri, dare e ricevere rassicurazioni che passerà, che vinceremo noi, che la città tornerà ad essere accogliente come sempre; ma le strade erano deserte, praticamente tutti i locali pubblici chiusi già dal pomeriggio. Guardando la cascata di gattini ho sentito che i miei concittadini condividevano le stesse speranze e gli stessi timori, che non avevano ceduto alla disperazione, e che tantissime persone lontane da Bruxelles e dal Belgio ci erano vicine.
- Ha unito la società invece di dividerla. Ci saranno, certo, stati avvoltoismi vari, come dappertutto; gente che ha cercato di usare gli attacchi di Parigi e lo stesso LockDown per portare acqua al proprio mulino politico. Ma le loro voci non hanno fatto presa – le acrobazie dei gatti sono state più interessanti dei messaggi di odio e divisione. Nemmeno la divisione tra obbedienti e ribelli si è verificata: al contrario, la città, il paese, il mondo si sono uniti intorno all’idea di condividere foto di gatti. Invece di polemiche tra cittadini e polizia, si è avuta una netta percezione di essere tutti dalla stessa parte. Si è anche scatenata una vera e propria gara di creatività, dalla finta campagna pubblicitaria per detersivi “Le Chat vs. Dash” (Le Chat è la vera marca di un vero detersivo che si trova in tutti i supermercati in Belgio) alla trama per uno sgangherato film d’azione (ovviamente parodistico) sulla jihad a Molenbeek, protagonisti il bruxellese Jean-Claude Van Damme e il re Philippe. Anche la polizia vi ha partecipato: per ringraziare i cittadini ha pubblicato sul proprio account Twitter la foto di una ciotola piena di croccantini con il logo “Polizia”.
- Ha umiliato i terroristi. Immaginate persone che hanno dedicato la loro vita a terrorizzare e demoralizzare una popolazione che considerano nemica. Immaginate che, all’indomani di un’azione orribilmente violenta e disumana, che rappresenta il coronamento della loro strategia, il loro maggiore contributo alla causa, questa popolazione reagisca con barzellette, battute e foto di gatti. Cosa resta della vita e del lavoro di queste persone? Meno di nulla. Non fanno paura a nessuno; anzi, sono rese ridicole, degne giusto di una battuta su Internet prima di finire per sempre nella pattumiera della storia.
Un fenomeno emergente dell’intelligenza connettiva
Non è difficile, in questi giorni, trovare in rete espressioni di apprezzamento per #BrusselsLockDown. “Che paese!“; “Proud to be Belgian“; “Sono francese, e mi dispiace che noi non abbiamo saputo reagire allo stesso modo“. Tutti gli apprezzamenti sono, giustamente, collettivi: dietro all’hashtag non c’è nessun geniale inventore, nessun saggio leader. La reazione di Bruxelles alla cupezza di domenica 22 è stata un fenomeno sociale emergente, abilitato dalla cultura belga di irriverenza per l’autorità e dai social media. Il ritorno alla normalità procede abbastanza rapidamente: domenica la città appariva spettrale, con tutti i locali chiusi, ma già da lunedì 23 i bar di Parvis-St. Gilles hanno tutti riaperto (e sono immediatamente stati rioccupati dai clienti abituali che ringraziavano gli esercenti per non essersi lasciati spaventare). Mercoledì 25 hanno riaperto la metropolitana, le scuole e l’Atomium. Giovedì 26 lo stato di allerta è stato abbassato da 4 a 3.
Credits: www.vanityfair.it
Noi bruxellesi (sia quelli di nascita che quelli di adozione, come me) siamo così resilienti, così difficili da spaventare, perché siamo una rete, senza un centro da colpire. Certo, anche i movimenti terroristici, da Al Qaida in poi, sono reti; anche loro sono resilienti, difficili da estirpare. Viviamo, non c’è dubbio, tempi interessanti. Ma di una cosa sono sicuro: il primo round l’abbiamo vinto noi. Con un piccolo aiuto da parte dei gatti.
Aggiornamento 28 Novembre 2015. The Fool ha pubblicato una breve analisi quantitativa di #BrusselsLockDown su Twitter. Sono numeri importanti: circa 200.000 tweets pubblicati da 92.000 utenti per 600 milioni di impressions tra sabato 21 e lunedì 23. Grazie!