Business networking, Benedetto Buono: “Le relazioni umane sono la vera chiave del successo”

Intervista a Benedetto Buono, autore del volume Business Networking che affronta la tematica delle relazioni professionali.

Benedetto Buono intervista

I cambiamenti che ha subito il business networking durante la pandemia e l’importanza del contatto umano per la costruzione di relazioni di valore sono alcuni dei temi che Benedetto Buono ha affrontato nel suo in uscita il 15 aprile edito da Dario Flaccovio Editore. Ne abbiamo discusso con lui in un’intervista in cui ci ha anticipato alcune riflessioni contenute nel volume.

Come nasce l’idea di scrivere un libro sul business networking?

Per molto tempo ho raccolto appunti e riflessioni rispetto alla tematica delle relazioni di business e nei mesi duri del lockdown ho pensato di provare a sistematizzarli per crearne un volume. Credo infatti che le relazioni siano la chiave di volta per fare un certo percorso professionale, al di là dei settori, e uno dei pochi veicoli di successo nel lungo periodo.

Dopo aver maturato questi pensieri e averli consolidati con studi e letture anche durante il mio Executive Master in Business Administration, ho riunito tutto nelle pagine di questo libro. Ho poi avuto la fortuna di entrare quasi subito in contatto con l’editore, Dario Flaccovio, tramite due cari amici che avevano già scritto un libro sul connubio tra HR e tecnologie emergenti e che mi hanno quindi aiutato a presentare la proposta alla casa editrice.

Come sono cambiati i rapporti professionali, in positivo e in negativo, durante la pandemia?

Durante l’emergenza sanitaria abbiamo avuto il beneficio di avere a disposizione molti canali digitali per restare in contatto: se la pandemia fosse accaduta anche solo tre o quattro anni fa l’avremmo vissuta in maniera peggiore perché avremmo sentito ancora di più il distanziamento.

Questi mezzi ci hanno aiutato a rimanere in contatto e per assurdo mai come ora si è riusciti a incrementare il network e gestirlo, perché sono venuti meno i tempi morti tra un meeting e l’altro ed è ora subito possibile iniziare una nuova riunione una volta conclusa la precedente.

Il rovescio della medaglia è che si è spersonalizzato il rapporto perché il filtro dello schermo ha fatto perdere i cosiddetti segnali deboli della comunicazione (fisicità, non detto, etc.) che spesso dicono molto di più delle parole in una conversazione. Ci siamo accorti che tutto ciò che davamo per scontato, come incontrare un collega per prendere un caffè, trascorrere la pausa pranzo con qualcuno, alzare la testa rispetto al nostro quotidiano, fosse in realtà una componente non solo importante ma essenziale.

Anche perché è proprio dai legami deboli e da quelle connessioni casuali che si creano negli ambienti fisici che nascono poi le opportunità migliori di carriera e di business. Da un lato si è dunque molto impoverita la qualità delle relazioni e, dall’altro, si è guadagnato nella velocità e nella possibilità numerica di incrementarle. Per riassumere: meno qualità e più quantità.

Nel secondo capitolo dedichi un paragrafo alla Gender (in)equality nella gestione dei rapporti: puoi fornire degli esempi?

Come scrivo anche nel libro, per me e per tanti altri gli individui e le persone sono tutte uguali, al netto del gender, del credo, della nazionalità o dell’estrazione sociale: ritengo che tutti debbano avere gli stessi diritti e doveri. Nel campo delle relazioni professionali è purtroppo innegabile come ci siano ancora delle differenze, anche nel modo in cui si fa networking. Questo perché, come evidenziato anche dagli studi di Marjo-Riitta Diehl (“Why women build less effective networks than men: The role of structural exclusion and personal hesitation”), le professioniste sono molto più attente al vero valore che possono dare all’altra persona e spesso, sulla base di un’incertezza o di un’incompletezza dei dati a loro disposizione, preferiscono non instaurare un rapporto piuttosto che buttarsi e provare a creare un canale comunicativo, come fanno invece gli uomini. Altri studi hanno dimostrato che gli uomini tendono ad “andare al dunque” e a chiedere quello di cui necessitano, cosa che il canale digitale ha contribuito ad estremizzare, accorciando le distanze e rendendo le richieste ancora più immediate. Per dirlo con le parole di Adam Grant, le donne sono più giver rispetto agli uomini, tendenzialmente invece più taker, cosa che si ritorce contro di questi ultimi perché hanno meno opportunità di ampliare il network e costruire delle relazioni genuine e di valore, che vadano oltre gli interessi materiali di brevissimo periodo.

Nel libro ho citato anche i rapporti annuali di Women in the Workplace redatti da McKinsey e Leanin, che hanno confermato come il networking sia una delle chiavi principali per essere selezionati a ricoprire incarichi di rilievo ed ambire a promozioni importanti. Tuttavia, hanno scritto gli esperti, le donne hanno meno probabilità di essere assunte in lavori a livello di top management ed è ancora meno probabile che vengano promosse verso tali ruoli di responsabilità. L’edizione del 2018 di questi studi riportava infatti che, ad esempio, per ogni 79 donne promosse ci sono 100 uomini che lo sono.

In un futuro in cui sarà nuovamente possibile incontrarsi di persona ma lo smart working continuerà a far parte del new normal, come saranno coltivate le relazioni di business? In che percentuale si tornerà alle modalità tradizionali e quali abitudini digitali verranno invece mantenute?

Io penso che lo smart working che abbiamo vissuto in questi mesi non sia un vero smart working perché alla base del concetto di lavoro agile c’è l’opzionalità, la scelta e la flessibilità: il nostro è stato più un work from home obbligato dove sono state esasperate alcune dinamiche negative dell’essere iperconnessi e del non staccare mai anche mentalmente. Secondo me il lavoro del futuro sarà un blend tra il lavorare da qualsiasi luogo che non sia l’ufficio rispetto all’avere un luogo identificato come community aziendale. In tal senso, mi piacciono molto alcuni concetti che stanno emergendo come quello dell’hub-quarter (non più headquarter, luogo unico in cui ci si reca, si lavora e si torna a casa). Con ciò si intende un’azienda diffusa sul territorio con tanti luoghi satellite dove le persone si possono recare con flessibilità e per scelta, realizzando così uno dei pilastri del vero smart working. Se si affermasse un modello del genere, i lavoratori avrebbero davvero modo di scegliere dove andare anche rispetto alle proprie esigenze di vita personale e aumenterebbero la felicità e le possibilità di connessione: si potrebbero infatti conoscere molte più persone che non si incontrerebbero andando sempre nello stesso edificio. Inoltre, ci sarebbe tempo per alzare la testa, con un beneficio a livello di brainstorming e di idee innovative, a tutto vantaggio della creatività. Confido dunque che nel prossimo futuro si potrà andare in questa direzione.

Nel libro affronto diverse tematiche afferenti a questo tema, come per esempio la smart leadership, ovvero le modalità con cui coinvolgere il team e coltivare relazioni di valore e produttive da remoto o con persone che sono polverizzate sul territorio. Il coinvolgimento e la partecipazione saranno le due leve principali che i leader nel prossimo futuro dovranno essere in grado di manovrare per avvincere rispetto ad un lavoro più liquido persone e relazioni distanti tra loro fisicamente.

Quali sono secondo te gli ingredienti per costruire quelle che definisci “relazioni di valore” e affermarsi nel mondo del business del futuro?

Sicuramente bisogna sempre mettersi a servizio degli altri, dare prima che ricevere ed essere sé stessi. Ormai tutti sappiamo che c’è il livello comunicativo e quello contenutistico, ci siamo noi nella vita reale e ci siamo noi come vogliamo apparire e comunicare: l’importante è che ci sia sempre coerenza tra quelli che sono i nostri valori e quello che trasmettiamo. Questo va a vantaggio del personal branding ma anche dell’employer branding e quindi dell’azienda.

Bisogna essere amichevoli con chi abbiamo di fronte, altrimenti l’interlocutore si chiuderà a riccio e si metterà sulla difensiva: nel caso opposto avremo probabilmente costruito un ponte comunicativo sul quale porre le basi per una relazione di valore. È poi necessario essere concreti e affidabili, cosa che contribuisce a essere percepiti come autorevoli, e variare i canali in base alla situazione contingente. Infine, credo che sia fondamentale una buona dose di leggerezza, non nella profondità dei contenuti o nella coerenza degli stessi ma nell’inserimento della componente umana nelle relazioni professionali: chiedere semplicemente come sta il nostro interlocutore, come ha trascorso il weekend e trasmettere calore anche digitale sarà fondamentale per non trasformarci in macchine e in intelligenze artificiali.

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Scritto da Debora Faravelli

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