Campdigrano, la sharing economy che parte da campagne e periferie

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Il re è nudo. Al di là di ogni ideologia c’è da dire che l’evidente crisi del modello capitalista/consumista e i suoi effetti (non solo economici) sono sotto gli occhi di tutti: nichilismo, irresponsabilità nei confronti dell’ambiente, problemi sociali. Ma come spesso accade, in risposta a tutto questo stanno emergendo nuove prospettive interessanti che spesso, però, corrono il rischio di finire nel tritacarne dello storytelling hype oriented che a cadenza circa semestrale ci propone la panacea del momento. Il carosello dell’innovazione a buon mercato va dalla social innovation agli open data, dalle smart city ai fablab e ai makers space. Quello più fighetto, perché può raccontare case history patinate e con bei numeri e grafiche accattivanti, pare essere il mito della sharing economy.

Non che queste prospettive siano negative negli intenti, anzi, almeno a parole i fondamenti della “nuova” impresa sorretta dal modello di economia collaborativa sono interessanti e condivisibili: le persone e le relazioni al posto dei processi e degli strumenti, lo scambio di conoscenze e la condivisione di beni materiali e immateriali, la collaborazione tra più attori sociali (società civile, imprenditori e istituzioni, ma anche enti locali e associazioni), lo sviluppo di contesti di social innovation condivisa e partecipata, e, in ultimo, un ruolo nodale ricoperto da quello che più appassiona tutti, ovvero la comunicazione online e l’utilizzo dei social media. Ma la prospettiva più importante è l’affrancamento dai nostri peccati. Il fine dell’impresa, o di qualsiasi ente che intraprende questa esperienza, è quello di fare del bene comune e del cambiamento sociale il suo obiettivo.

Una prospettiva di branding in tempi bui che pare essere una ricetta giusta di riposizionamento strategico, anche in alcuni contesti politici.

Le barriere burocratiche all’economia sociale

Tuttavia, malgrado il canto delle sirene rappresentato da questa sorta di socialismo prêt-à-porter sia sempre più forte ed attraente, in realtà sembra ancora molto lontana la proposta di Bauwens di uno Stato-Partner all’interno del modello dell’economia sociale della conoscenza, soprattutto nei nostri Paesi occidentali ancora dominati dal paradigma capitalista e finanziario. Anzi, peggio. In Italia ancora accade che, malgrado la buona volontà di qualche politico e di sempre più numerosi changemaker, la burocrazia e la stessa pubblica amministrazione rallentino o pongano barriere per lo sviluppo di reali forme e progetti di innovazione sociale.

La pubblica amministrazione, gli enti locali, la burocrazia territoriale rappresentano infatti nell’esperienza degli innovatori sociali una delle principali barriere alla riuscita dei progetti.

Che differenza c’è, se c’è, tra autoimprenditorialità e associazionismo?

Allora, di che parliamo? C’è una regolamentazione in grado di rispondere alle esigenze di queste nuove imprese? Che differenza c’è, se c’è, tra autoimprenditorialità e associazionismo? Si parla di tante realtà ancora differenti o i neologismi sharing economy, social innovation, smart city, fablab, makers, open data, startup sono spesso parole vuote che servono a nascondere vecchi sistemi di potere e di egemonia culturale? O, peggio, rappresentano l’alba di nuove èlite che attraverso nuovi linguaggi cercano di aggrapparsi alle dinamiche degli hype del vecchio mercato (della vecchia società) cercando di creare nuovi steccati, nuove rendite di posizione? Il rischio c’è. Soprattutto il rischio di subire ancora una volta un colonialismo culturale che importa e impone modelli che ben poco si adattano all’Italia degli 8000 e passa comuni. Modelli che, in barba alle legislazioni esistenti, altre volte grazie alla mancanza di regolamentazione in ambiti dell’economia ancora piuttosto inesporati, hanno spaccato in due interi settori merceologici come l’intrattenimento, l’informazione, l’ospitalità, la mobilità, il turismo, e stanno rapidamente arrivando al lavoro intermittente e professionale, al cibo, all’agricoltura, vampirizzando le energie vive che ancora risiedono nelle periferie dell’impero, nelle zone rurali, nelle aree interne.

La summer school #Campdigrano

Ma, fortunatamente, da qualche anno, come delle sentinelle del senso, una rete informale di ricercatori, attivisti, studiosi, agricoltori, stanno operando un’azione di guerriglia semantica attraverso la pratica e la comunicazione di nuove esperienze, volte a riempire di significato gli hype del contemporaneo, al fine di difendersi dal rischio di finire, ancora una volta, vittima di un colonialismo culturale e simbolico. Per questo, nel basso Cilento, in provincia di Salerno, nasce #CampDiGrano, la prima summer school, dove non si ascolteranno e applaudiranno case history altisonanti di famose startup americane dell’innovazione sociale. Anzi, si lavorerà per fornire anticorpi per la sharing economy. #CampDiGrano sarà una settimana vacanza/lavoro/riflessione che consentirà ai partecipanti di risuonare, con un processo in atto, di autorisignificazione delle comunità rurali in un momento storico importante. Tutti i partecipanti potranno, infatti, lavorare gomito a gomito, con i protagonisti di un’altra sharing economy, di un’altra innovazione sociale, fatta nelle aree interne e rurali, che è soprattutto presa di coscienza della propria soggettività storica. Sono tantissimi, infatti, i giovani, che ritornano (o che decidono di rimanere) in periferia, nelle aree interne e rurali, convinti di doversi assumere la responsabilità di prendersi “cura” dei loro territori.

#CampDiGrano vuole essere una scuola di sopravvivenza nel mondo dell’immaginario uniformato, un esercizio creativo

#CampDiGrano consentirà ai giovani partecipanti da tutta Italia di entrare dietro le quinte di un processo di attivazione delle comunità locali, lavorando fianco a fianco con gli splendidi neorurali e la comunità tutta di Caselle in Pittari, nell’organizzazione di una grande e autentica festa popolare, il Palio del Grano, per trasmettersi conoscenze nell’unico modo possibile, ovvero per prossimità, “vedendo/facendo”. #CampDiGrano vuole essere una scuola di sopravvivenza nel mondo dell’immaginario uniformato, un esercizio creativo, una resistenza ludica all’oppressione, uno strumento di critica radicale dei luoghi comuni, degli stereotipi sociali e di tutto ciò che ha veicolato e veicola il fallimento del presente. Una settimana in compagnia dei peggio outsider italiani e internazionali del pensiero e delle pratiche innovative contemporanee: Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, Adam Ardvisson, Alex Giordano, Craig Prichard, Roberto Covolo, Alberto Cossu, Vincenzo Moretti, Tony Ponticiello, e tanti altri; storyteller come Baba Sissoko e Arianna Porcelli Safonov e di tutta la splendida comunità del grano di Caselle in Pittari per una settimana nel basso Cilento, alle periferie dell’impero, tra pratiche indigene e comunicazione globale, una settimana di alfabetizzazione rurale per dire no ai boyscout dell’innovazione sociale e per ragionare e performare nuovi possibili futuri. Saranno selezionati 20 partecipanti tra quelli che si iscriveranno qui. Iscriviti e non aver paura di guardare in faccia al sorriso demente del nostro secolo.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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