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Cari aquilani, ecco perché non avete il teatro promesso

ambiente

Quando pochi giorni dopo il terremoto del 6 aprile andai all’Aquila, mi ispirò qualcosa che definirei un grande senso di tenerezza. Nel senso che la città, arrivando dall’autostrada, la vedi bene, sembra tutto normale, ma poi avvicinandoti ti rendi conto che non c’è più. L’abbandono è una sensazione emotiva molto forte.

Ero andato per un grande progetto di trasformazione di piazza d’Armi. Mi portarono a pranzo in un ristorante sotto il cavalcavia perché il centro storico non c’era più. E mi dissero una frase che mi colpì: “Non riusciamo a vivere di sola periferia”, che ti fa capire quanto questa radice dei centri storici sia un grande calmieratore sociale perché aiuta a mediare una periferia che non ha assolto ai bisogni che abbiamo come cittadini, dall’estetica alla qualità della vita.

Allora pensai che la cosa più difficile della ricostruzione sarebbe stata questa: il fatto che non avevi più quel calmieratore sociale del centro storico e il resto non ce la poteva fare da solo.

La periferia all’Aquila inizia subito fuori dal centro storico, e oggi è chiaro che quell’idea di città non ha funzionato. E’ questo che oggi andrebbe rimesso in discussione. Rifare L’Aquila vuol dire sì ricostruire ma anche rimettere assieme i suoi tessuti urbani. Lì si gioca una partita unica. Non c’è un altro luogo dove c’è un centro storico completamente abbandonato e tutta una vita quotidiana che continua ad esserci, ma col cuore spento. Per questo l’idea delle new town, così teorica e astratta, affidate ad un geometra, mi fece andare fuori di testa.

La casa dissociata dalle relazioni è ancora peggio di non averla per certi versi.

La grande forza e carattere delle città non sono solo le architetture ma il sistema di relazioni che si instaura tra l’architettura e gli uomini con la loro cultura le loro abitudini, i linguaggi le memorie e le emozioni.

Una volta a Bologna feci un laboratorio, boxbo, di cinque settimane a piazza Maggiore su questo tema: e lì emerse con forza che sono le reti invisibili quelle che tengono in piedi una città. Una ricostruzione per avere senso deve intercettare una mappa di queste reti. Recuperare i luoghi delle relazioni.

Ora si parla di fare dell’Aquila una smart city. Sarebbe bello mettere in piedi un sistema di reti che tengano assieme emozioni, informazioni, energia e ambiente.

Ma fare una smart city non è sempre sinomimo di demolizione e ricostruzione. Non sarebbe smart. All’Aquila non va tolta la memoria della spazio, che è uno dei valori più straordinari di una città è il patrimonio genetico realizzato in pietra. Poi è vero che c’erano delle brutture che sono crollate e che si potrebbe fare a meno di ricostruire. Ma bisogna stare molto attenti al lavoro degli architetti: è necessario sviluppare una forma di empatia fra le cose nuove e quello che c’era. All’Aquila non ci puoi mettere qualunque stravaganza.

In tutto ciò non ho capito chi fa il piano, il grande piano strategico. Chi lo fa? In questi anni in Italia abbiamo scoperto che tanti strumenti urbanistici non producono né bellezza né infrastrutture e qualità del territorio. Per questo dico che serve un piano visionario, una visione. Abbiamo in mano una occasione straordinaria per fare una cosa bella, probabilmente le risorse ci sono anche, non possiamo impantanarci in uno strumento urbanistico banale e piatto.

Sento dire che la strada potrebbe essere bandire un concorso internazionale per giovani architetti. Sarò franco: per me è una cazzata. E’ troppo complesso. E astratto. Meglio costruire dei laboratori di discussione lì. Con gli architetti aquilani e il resto della popolazione. Vanno messe insieme aspirazioni, visioni e possibilità. Certo, le visioni hanno bisogno di tempo, mentre il tempo ormai è scaduto dopo tre anni buttati via. Ma se metti assieme un gruppo di persone intelligenti che conoscono L’Aquila, in tre mesi tiri fuori il vero piano, che non dovrà essere troppo specifico, minuzioso, ma indicare una via.

Parlare dell’Aquila oggi mi dà l’occasione per chiarire la storia del teatro, annunciato, progettato e mai realizzato. Il teatro è stato un atto di generosità.

Quando, pochi giorni dopo il sisma, il presidente del Cosmit di Federlegno Carlo Guglielmi ci ha chiesto di condividere il progetto di un nuovo teatro da donare alla città, gli abbiamo creduto. Ripeto: fu un atto di generosità dire di sì. Non c’era nessuna ambizione di altro tipo. Anche perchè una lira non l’abbiamo presa e non l’abbiamo chiesta. Ma c’era una speranza, anzi, una certezza: che un opera di quel tipo può generare comunque grande positività. All’Aquila c’è sempre stato un teatro stabile con una grande storia, un bel teatro di provincia del ’800: e c’è il record italiano di biglietti strappati per abitante. Insomma, c’è anche la domanda di cultura e spettacoli. L’idea che condividemmo con il direttore dello Stabile, Raggi, fu un teatro di legno, non grandissimo, 800 posti, da inaugurare subito, prima di Natale, mentre l’altro era ancora chiuso. E poi, dopo la ricostruzione, questo sarebbe stato destinato al teatro sperimentale, visto che in Italia spazi dedicati non ce ne sono e questo ci penalizza.

Iniziai subito a lavorarci. Ero emotivamente molto coinvolto. La prima cosa che decisi fu che un teatro si progetta con chi nei teatri ci lavora. E quindi andai da Dario Fo. Lui si mise a disegnare come lo immaginava e mi raccontò di quando andava in tour con Franca Rame e ogni volta dovevano spostare il palco, o il sipario o le sedie per ricreare quella grande tensione emotiva fra chi recita e chi ascolta. Vidi anche il direttore del Piccolo di Milano, Sergio Escobar, che fu squisito: “Un teatro così non l’ho mai visto” mi disse, “ma vedremo di farlo funzionare”. E Alessandro Gassman che ne sarebbe stato il direttore e si mostrò entusiasta.

Tutto questo fervore intanto aveva creato quello che io chiamo “l’ effetto collaterale della architettura”. Un nuovo ottimismo. Ci si diceva: allora lo facciamo davvero, dai, in tre mesi si parte, qualcuno fantasticava sulla programmazione degli spettacoli. Tra l’altro il luogo scelto era fortemente simbolico. Il sindaco dell’Aquila era riuscito a strappare un accordo per la cessione dell’area militare di piazza d’Armi. Si tratta di un’area che è stata oggetto di appetiti clamorosi: ci volevano costruire un business center. Immaginate dei palazzacci di vetro lì! Il sindaco invece aveva difeso l’idea del teatro con un parco intorno. Noi avevamo fatto il masterplan: dove sfilavano i carri armati sarebbe sorto un luogo di verde, sport e cultura.

Sembrava una storia bellissima. E siamo andati a raccontarla anche alla comunità degli abruzzesi di Canberra, in Australia. Venne organizzata una raccolta fondi, con tanto di modello e foto del teatro. L’ambasciatore organizzò una di quelle cene all’americana, con tante tavole imbandite e l’inno di Mameli tirando su due milioni e settecentomila dollari.

Che fine hanno fatto? Non lo so, immagino che saranno congelati in attesa che qualcuno lì usi. Perché il problema che emerse allora fu che per il teatro non bastavano. Eppure l’accordo con la Federlegno per me era chiaro: io regalavo il progetto e loro mettevano i soldi per la costruzione. Ma poi è cambiato qualcosa. Eppure le aziende del legno erano state quelle che avevano avuto i maggiori benefici dalla ricostruzione visto che le casette di Bertolaso erano tutte in legno. Improvvisamente però, la donazione divenne “lo facciamo al costo”. Il che era naturalmente impossibile: chi avrebbe dovuto pagarli i soldi per il teatro? Gli aquilani? Lo Stato?

Confesso che la marcia indietro mi ha messo in grande difficoltà perché una operazione di generosità è apparsa come la solita operazione di comunicazione. Ma non mi sono arreso. Ricordo che andai a parlare anche con Bertolaso in persona che in quanto commissario della ricostruzione aveva il potere di fare tutto. Mi disse: “Berlusconi va all’Aquila dopodomani, gli faccio vedere il progetto e vedrà che lo finanzia direttamente”. Poi quello non c’è più andato, quell’altro aveva la sciatica e la cosa è finita lì….

Al presidente di Federlegno Guglielmi ho scritto una cara lettera per dirgli che così non si fa. Lui si è anche arrabbiato: “Non avevamo mai detto che lo avremmo regalato…”. Io gli ho risposto: “C’è anche un video su YouTube. Eravamo al Salone del Mobile del 2009. Lì non dici: donerò al costo. Il principio della donazione non può essere a metà”.

Peccato, è stato un grande autogol, quel teatro andava fatto, magari più piccolo ma andava fatto. Oggi gli aquilani per mancanza di alternative, si incontrano al centro commerciale l’Aquilone, in una galleria e di vivere così non ne può più nessuno.

Non so come sarà il futuro dell’Aquila, se davvero la ricostruzione partirà e se sarà intelligente e smart come dicono. Ma sarebbe bello tornare all’Aquila domani e vederla come tante città asiatiche, brulicante di mille cantieri con i cuori delle persone di nuovo accesi. E spero mai spenti!

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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