Cari ministri, basta con le favole sul digital divide che non c’è

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Entro l’estate è diventato dopo l’estate. Tra un rinvio e l’altro i decreti per startup e Agenda Digitale sono stati posticipati a settembre (sarà la volta buona?) insieme all’Agenzia per l’Italia Digitale e al direttore generale della stessa. La speranza è che dopo dieci anni di immobilità, decreti Pisanu e leggi anti blog un’ulteriore decina di mesi sia servita a qualcosa. Vedremo.

Per provocare l’accelerata innovativa di cui l’Italia ha bisogno si deve però esser sicuri di aver ben aperto gli occhi e compreso la situazione. Sì, la vaga forma impersonale usata nasconde un “chi può cambiare le cose”. Rendere tutto più luccicante e bello non serve a nulla se non ad ingannarsi da soli. Basta con la storia del digital divide al 5%.

Lo dico anche ai ministri competenti. Sappiamo tutti che quel dato equipara la banda larga mobile (UMTS, HDSPA and counting) a quella fissa (Dsl, fibra) e fixed mobile (WiMax, Hiperlan). Il mobile per quanto sia sempre più determinante ed importante resta mobile, ottimo per gli usi in mobilità, con costi e rapporto qualità/prezzo improponibili per un utenza domestica/aziendale minimamente più esigente.

Non parliamo poi dei problemi di copertura e del fatto che le zone industriali di chiavette e chiavettine non se ne fanno nulla.

Prendendo in considerazione il vero fixed digital divide lo stesso Mise parla di più di 6,5 milioni di italiani che non possono accedere ad internet prima di sentire il suono di un modem a 56k.

La percentuale sale all’11% a cui vanno aggiunti tutti i cittadini bloccati con le rovinose “adsl light” 640k e tutti coloro che sulla carta sono considerati coperti ma che non possono sottoscrivere alcun contratto a causa del degrado delle reti e delle centrali sature.

Chiunque viaggi per la penisola e navighi un po’ sa benissimo di come questi non siano rarissimi casi limite. La situazione appare già un po’ meno lucciante, vero? Anche l’Italia connessa non se la passa bene: basta dare un’occhiata a qualunque report sulla penentrazione del broadband. Secondo State of the Internet di Akamai solo il 12% delle connessioni italiane supera i 5Mbps. Aprire i discorsi con “abbiamo ancora un piccolo digital divide e poi siamo a cavallo” accompagato dal pinch to zoom in non aiuta a migliorare le cose.

E Neelie Kroes ce lo ricorda tutte le volte in cui parla di Italia. Basta quindi con la storia del problema (solo) culturale.

Tempo fa ho visto un documentario su alcuni aborigeni del sud-est asiatico in visita a Londra. Nessuno di loro sapeva guidare un’auto e ovviamente nessuno se ne meravigliava. Abitando in foreste tropicali perché mai avrebbero dovuto saper guidare un’auto? Nessuno di loro inoltre voleva imparare a farlo: immaginavano già come avrebbero potuto trasportare acqua e materiale facilmente, ma perché mai fare la fatica di apprendere qualcosa di così nuovo per poi ritornare tra animali selvatici e chiome fitte?

Come possono le persone voler imparare ad usare la Rete se non sanno cos’è o non possono accedervi?

Il vero problema culturale è quello di chi non si sfroza di insegnare e creare le “strade” veloci e facili, non certo delle persone che ancora non sono in Rete. Non è vero che la gente non vuole Internet, semplicemente non sa o non può. E nessuno fa in modo che sappia e possa. A mio nonno piacerebbe molto, probabilmente, fare bonifici e saldi sul conto online senza muoversi e usare la macchina (ah, come cambiano le cose signor aborigeno!) ma non può farlo.

Non saprebbe affrontare siti macchinosi e lenti, plugin, pin, lettere a casa, nuovi pin e attese – più fisiche che mai – allo sportello di turno. Ho provato ad iscriverlo online perché potesse tenere sottocchio la pensione. Non ci sono riuscito. Se anche mio nonno avesse voluto tentare da solo, non avrebbe potuto: non è raggiunto da internet – e non abita sulla cima di una montagna. Il problema culturale è una conseguenza, non la causa della scarsa infrastrutturazione e dello scarso utilizzo delle opportunità offerte.

Basta anche con la storia dei 2Mbps scarsi che bastano ai privati. Il mio vicino di casa, anche lui non più giovanissimo, è venuto a chiedermi cosa fosse questo Internet e come potesse fare un collegamento per vedere i nipoti in Germania via Skype. Se anni fa non avessi combattuto per portare la banda larga nelle mie zone cosa avrebbe fatto? Semplice, avrebbe lasciato perdere, esattamente come ha fatto mio nonno che fa ancora le code in posta. Quindi proprio vista la presenza del digital divide culturale il problema infrastrutturale è ancor più serio. È molto più facile avvicinare persone alla Rete con Netflix, Skype e Youtube (per i quali è necessario un collegamento veloce) piuttosto che con un modulo online di INPS e Agenzia delle Entrate.

Soprattutto alla luce della qualità dei servizi e-gov italiani. Basta alla favola dell’e-gov più sviluppato d’Europa. Il suo utilizzo nell’ultimo anno in Italia è addirittura diminuito. Avere migliaia di servizi online inutilizzabili e lenti non serve a nulla se non, ancora, ad ingannarsi da soli. Quel che invece bisogna proclamare e fare è educare e ri-educare il target al più presto ridisegnando i portali per renderli user friendly, incentivando l’installazione di hotspot WiFi e addirittura proponendo alcune pratiche esclusivamente online portando nel frattempo banda ovunque. Pensate ad un censimento compilabile solo online, facilmente.

Avrebbe portato molte persone anziane (magari accompagnate dai propri figli) a capire che questo Internet non è così spaventoso. Bisogna insomma iniziare a parlare di Internet a chi in internet non c’é. In Tv, in radio, nei salotti pomeridiani dove ora si spiega criminologia e macroeconomia. Portando esempi di come Internet faciliti la vita e faccia risparmiare tempo e denaro, coinvolgendo le aziende nel rilancio del paese promuovendo e-commerce e pagamenti online.

Sarebbe auspicabile ad esempio che gli innovatori invitati ai rari show sul merito della Tv pubblica non si ritrovino relegati alle ore piccole o quasi costretti a raccontare frottole per strappare lacrime. Ma anche la politica può riprendere il posto che gli spetta con open data e trasparenza. Per fare tutto questo ben vengano i decreti, le cabine di regia e le agenzie. Ma contemporanemente serve un’azione più agile, comprensibile e veloce che possa creare engagement, possa spiegare alla P.A come risolvere il digital divide, faccia capire in ogni singolo ufficio sforna servizi e-gov che le enormi griglie che spacciano per siti web non servono a nulla, less is more.

Un’azione, una figura, un percorso che in modo meno ingessato possa parlare e insegnare. Basta numeri luccicanti, quel che serve è alfabetizzazione e promozione. Basta con la storia del “si è sempre fatto così”, degli anziani che non capiscono, del pensare sempre al come e alle strutture necessarie senza mai fare nulla. Si può fare, si fa.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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