Questa settimana ho parlato con il partner di un importante fondo di venture US (il fondo di venture di Peter Thiel) che è uno dei pochi fondi Americani ad occuparsi di venture capital internazionale. Gli dicevo che sono pochi gli investitori anche Europei che guardano all’Italia. Mi ha confermato che a Londra parlando con il manager di un grande fondo UK, gli ha detto che «we don’t look at the garlic belt». Ovvero non si occupano minimamente di cercare investimenti in Spagna, Portogallo, Italia, Grecia.
A parte il nomignolo vagamente offensivo che denota una certa patina di pregiudizio e velato razzismo e mi fa schiumare di rabbia, (non è da meno peraltro l’acronimo PIGS con cui queste nazioni vengono chiamate in nord Europa), la verità è che questa è la situazione generalizzata.
È inutile che ce la meniamo tanto, capitali di rischio stranieri qua in Italia non ne arrivano. Punto.
L’Italia è considerata un pig, centro del “garlic belt”, un luogo dove non ha senso neanche mettere il naso per un operatore che guarda al mondo come territorio di investimento. Per quanto possiamo suonarcela e cantarcela, questa è la verità. Nel campo delle startup e venture capital, siamo considerati un paese del tutto marginale, probabilmente anche molto meno interessanti di paesi Sudamericani o Africani, dove almeno ci sono economie in crescita.
Quando ho postato su Facebook questo aneddoto si è scatenata una discreta discussione che vale la pena riprendere e provare a schematizzare.
Ci sono gli ottimisti, come Luca “Li faremo ricredere! ; )” o Pietro che dice “continuiamo a muovere i nostri passi con passione, con le nostre idee e i nostri capitali… L’affermazione internazionale sarà una conseguenza.
C’è bisogno che incubatori, università, fondi e imprenditori facciano cerchio e collaborino, la direzione é giusta”.
Ci sono i realisti. Come dice giustamente Massimo Banzi, “come biasimarli?”
In fondo vista dall’estero la classe dirigente Italiana appare per quello che mediamente è: mediocre, provinciale, rissosa, inaffidabile e troppo spesso corrotta, con una politica incomprensibile che tollera, convive con ed avalla situazioni e personaggi che in un paese mediamente civile sarebbero probabilmente finiti in galera già da un bel pezzo e in ogni caso gente a cui non affideresti nemmeno la gestione di un condominio.
Come dice Maurizio “Italiani …fanfaroni pizza e mandolino!….
Eppure quanto sostiene Marco Bicocchi Pichi è vero: non avremmo bisogno di capitali esteri per lanciare high-tech e startup in Italia.
“Abbiamo abbastanza capitali in Italia per finanziare una valanga di startup, il problema è che siamo noi i primi a non credere in noi stessi”. A partire dalle nostre istituzioni aggiungerei io, che nonostante le parole non investono nel settore delle startup. Come al solito in Italia, grande supporto a parole, ma poi quando bisogna passare ai fatti tutto si vaporizza. Inoltre, come sottolinea giustamente Marco, “quello che manca è capitale di RISCHIO che vuol dire avere cuore e palle, e in Italia mi sembra prevalere la mentalità della rendita. Se mancano i finanziamenti è perché i soldi sono indirizzati a finanziare il debito pubblico oppure gli italiani preferiscono essi stessi investirli fuori Italia”.
Ma cosa possiamo fare per cambiare questo pregiudizio e cominciare a diventare un posto in cui anche gli investitori Europei (non dico gli Americani per i quali non siamo nemmeno sulla cartina geografica) cominciano a frequentare il nostro ecosistema e lasciare giù capitali? Ci sono alcuni ordini di problemi che andrebbero affrontati e risolti, a mio modesto parere, per cambiare questo odioso trend.
1) Creare un ambiente favorevole all’imprenditoria. Le classiche cose che sento dire dai nostri politici da sempre e da sempre sono il fulcro di tutte le campagne elettorali di tutti i nostri beneamati partiti: semplificare, ridurre la burocrazia stupida, avere un sistema giudiziario funzionante, etc. Bene ho 46 anni e da quando sono nato sento questi discorsi senza vedere nessun vero cambiamento. I soliti italiani tutte chiacchiere e distintivo, incapaci di fare e di incidere. Ho smesso di crederci ed in ogni caso per far succedere qualcosa di questo tipo serviranno decine di anni. E non abbiamo tanto tempo.
2) Creare le condizioni perché i capitali privati Italiani possano essere investiti sul suolo italiano utilizzando la leva della detrazione fiscale per compensare lo svantaggio competitivo e il rischio maggiore. In parte è quello che è stato fatto nel Decreto Sviluppo, anche se in maniera molto timida e tutto sommato poco incentivante.
3) Sviluppare un ecosistema locale funzionante, in grado di fare da solo. In grado di generare successi visibili e tangibili. Nel momento in cui questo comincerà a succedere sono sicuro che i francesi, tedeschi e inglesi probabilmente cominceranno a mettere il naso in Italia. Magari non saranno i first tier, ma sicuramente qualche fondo second tier o emergente comincerà a capire che qui in Italia c’è una concreta opportunità di business. Questo è fattibile, ma occorrono una determinazione e una competenza nella nostra classe dirigente che attualmente ancora non si vede (basta vedere la legge sulle startup che è stata fatta).
4) Organizzare attività di promozione delle migliori esperienze di successo in termini di startup e venture nei mercati chiave europei. Anche questo sarebbe fattibile e anche relativamente poco costoso. Ma fino ad adesso abbiamo visto solo baracconi e ‘gite scuola’, niente di significativo.
Sintomatico l’aneddoto raccontato da Augusto Coppola: qualche anno fa ricevetti una skype call da parte di un importante fondo tedesco. “Mi dicono che sei un tipo in gamba con una tecnologia fica, ho poco tempo adesso, ma mi chiedevo se riesci ad essere a Francoforte dopodomani mattina alle 11.00 così ne parliamo di fronte ad un caffe?”. Risposi subito: “Certo!”. Incontrai il tipo a Francoforte, stretta di mano, convenevoli, poi lui mi fissa e mi chiede “Coppola… Coppola… è un cognome italiano?”.
Io: “Sì, italianissimo”.
Lui: “Ah! E da quant’è che hai lasciato l’Italia?”.
Io: “Ma veramente io vivo in Italia, a Roma!”.
Lui: “A Roma? E come fai a seguire la startup da Roma?”.
Io: “Basta andare in ufficio tutti i giorni, anche la startup è a Roma”.
Lui: “Ah! Allora mi dispiace, investiamo solo in Europa”.
L’aneddoto dice tutto. Allora, classe dirigente Italiana, vogliamo restare pigs nel cuore del garlic belt, oppure vogliamo uscire da questo pantano? Datevi una mossa!
Milano, 2 agosto