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Carlo Gentile morì da fallito senza sapere di aver migliorato il mondo

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Chi l’avrebbe detto? Cercare d’intercettare il futuro, anche nel mio nuovo lavoro di giornalista indipendente, porta a seguire fili e percorsi sempre più bizzarri. Mai avrei pensato però che su questa strada mi tornasse preziosa una passione coltivata da bambino in una sala parrocchiale…

La passione è quella per il West. L’overdose, di film western, me la sparavo con contorno di liquirizie nelle domeniche pomeriggio al cinema, causa un padre, cronista al Gazzettino, che non staccava mai nei festivi. Nel piccolo cinema Disney di Mestre, la città dove sono nato e cresciuto, il “Arrivano i nostri” era scandito dal galoppo dei giovanissimi spettatori che tutti insieme zompavano eccitati sulle sedie di legno, con un frastuono che copriva dialoghi e pure sparatorie sullo schermo.

Indiani, cowboys, canyon e Monument Valley si sono così aperti rumorosamente un varco nel mio immaginario. C’è chi, crescendo, dimentica. E chi non dimentica e magari nemmeno cresce… Così quelle suggestioni sono finite pure in un progetto, Italiani di Frontiera, partito con sei mesi a Silicon Valley, che di tutt’altra frontiera parla, quella dell’innovazione.

Via via che procedevo su una pista inedita, affiancare storie come quelle di Federico Faggin, vicentino, padre del microchip a quella di Giacomo Costantino Beltrami (1779-1825), esploratore bergamasco che risalì il Mississipi si è dimostrato sempre meno astruso. Davvero avventurieri ed esploratori per le loro imprese hanno sfidato prima di tutto una “frontiera mentale”, quella che limita il mondo conosciuto, le consuetudini, proprio come fanno imprenditori e scienziati nella culla mondiale dell’innovazione.

Scoprire poi che un italiano poco più anziano di me era diventato un’autorità mondiale di quella frontiera, fra i maggori esperti di nativi americani come antropologo allo Smithsonian Institution, ha rafforzato quella suggestione. Ora Cesare Marino è anche uno dei miei migliori amici. Con lui ho pure condiviso qualche avventura e le straordinarie storie di italiani del West da lui scoperte sono una parte cruciale del mio progetto.

È una di quelle storie ad avermi spiazzato. Perché l’avevo raccontata decine e decine di volte ma solo di recente, all’improvviso, mi è sembrato di coglierne il vero significato. Cruciale, per capire come si guarda al futuro. È la storia di Carlo Gentile (1835-1893), fotografo napoletano sulla Nuova Frontiera americana. Pochissimi lo ricordano, ma a modo suo fu un vero innovatore.

Tanto ingegnoso e ardito quanto sfortunato, come racconta Cesare Marino nella sua toccante biografia, “The Remarkable Carlo Gentile talian Photographer of the American Frontier”, ancora mai tradotta in italiano.

Il racconto potrebbe iniziare dal 1866, quando il napoletano che per dieci anni aveva percorso la Nuova Frontiera con macchina fotografica e cavalletto, raccogliendo straordinari scatti, dai nativi americani alla corsa all’Oro alla prima San Francisco, s’imbarca per l’Italia, convinto di far fortuna con quelle immagini, che invece al primo scalo vanno perdute. Disperato, Gentile ricomincia daccapo, aprendo uno studio proprio nel cuore di San Francisco.

Forse nessuno lo ricorderebbe oggi, se un bambino indiano della tribù degli Yavapai, nato proprio in quel 1866, non avesse incrociato la sua strada.

Aveva cinque anni Wassaja, “colui che che fa un gesto con la mano”, nel 1871 quando in un’Arizona in subbuglio per la corsa all’oro, Gentile impietosito lo riscatta per 30 dollari da un banda di indiani Pima, che l’aveva messo all’asta dopo averlo rapito ai genitori, e ne fa il suo figlio adottivo, facendolo battezzare col nome di Carlos Montezuma, ispirandosi all’imperatore azteco.

Col bimbo, Gentile va a scattare foto in New Mexico e Arizona. Poi a Chicago i due lavorano in teatro con William Cody, Buffalo Bill: Carlos è l’unico vero indiano della compagnia, che porta in scena rozzamente un’epopea del West ancora in corso, tra i protagonisti accanto a un’italiana, la ballerina della Scala Giuseppina Morlacchi, che interpreta la bella principessa indiana, mentre Gentile fa da fotografo di scena.

Padre e figlio vanno poi a New York, dove la vita non è facile, per un indiano. Gentile insegna a Carlos ad esprimersi con poche parole, ad essere cortese ma anche a farsi valere senza paura davanti a prepotenze e discriminazioni razziali, che anche lui come italiano ha subito.

Una lezione che il ragazzo non dimenticherà, rivelandosi eccezionalmente dotato. Sarà il primo nativo americano a laurearsi in Scienze, poi in Medicina, diventando una figura storica nella battaglia per i diritti dei nativi americani, eternamente grato al padre adottivo. Il quale invece perseguitato dalla sfortuna, passa da tracolli finanziari ad incendi che devastano i suoi archivi, con una salute sempre più precaria.

Gentile muore a 58 anni il 27 ottobre 1893, secondo alcune fonti suicida, scrive Marino. Diventato un leader celebre e rispettato, il figlio si prenderà cura della vedova, per sempre riconoscente a quel padre adottivo, cui dice di dovere tutto. E l’epilogo non è meno toccante. Negli anni Venti, in una capanna in Arizona viene scoperto il cadavere di un indiano con addosso solo il tradizionale perizoma di cuoio.

Fa notizia perchè è il celebre dottor Carlos Montezuma (1866-1923), che quando ha sentito avvicinarsi la fine per la tubercolosi, ha smesso gli abiti occidentali con cui aveva sempre vissuto, per lasciarsi morire lì dove era iniziata la sua straordinaria avventura, grazie ad un padre italiano che gli aveva regalato la libertà, insegnato a scoprire il mondo ed a farsi rispettare.

È stato Tim Harford, autore del bellissimo “Elogio dell’errore. Perchè i grandi successi iniziano sempre da un fallimento”, a farmi capire solo di recente il significato di questa storia. Qui sotto potete anche vedere la sua bellissima conferenza TED.

In un mondo complicato e imprevedibile, non ha più senso affidarsi a leader o guru afflitti dal “Complesso di Dio”, l’illusione dell’infallibilità. Occorre invece procedere come la ricerca scientifica, in modo empirico, dice Harford. Sperimentando, tentando percorsi non convenzionali. Costruendo insomma sugli errori, senza paura di fallire, perché è così che si introduce innovazione. Che è un po’ quello che fa la stessa natura, attraverso l’evoluzione che costantemente corregge e seleziona i più adatti al cambiamento.

Dalla lotta al terrorismo ai cambiamenti climatici, dalla crisi finanziaria alla guerra in Iraq, Harford racconta storie di protagonisti di successo capaci di trovare soluzioni non convenzionali, costruite con tenacia, tentando e ritentando sino a trovare il percorso giusto. A volte raccogliendo il testimone da qualcuno che prima aveva imboccato la strada giusta, senza però riuscire ad arrivare al traguardo.

È questo che getta una nuova luce, avvincente e moderna, sulla storia di un dimenticato fotografo napoletano del West. Professionista di qualità e innovatore, uomo generoso ma sfortunato, Gentile è morto considerandosi probabilmente un fallito. Invece ha contribuito a migliorare la vita di migliaia di persone, grazie a quel figlio di talento che lui ha saputo crescere e plasmare, trasmettendogli conoscenze e valori che ne hanno fatto un stenuo difensore dei diritti civili dei nativi americani.

A volte i libri accendono una luce. E oggi mi pare persino strano aver raccontato tante volte quella storia e aver colto solo di recente quel significato. Che fa vedere in modo diverso la vita di Carlo Gentile. Ma ci obbliga pure a guardare con occhi diversi chi ci sta attorno o ci ha preceduto, chi ha percorso magari in modo eccentrico strade nuove, forse senza arrivare al successo, forse lasciando a noi il compito di apprendere la lezione, trarre esempio e proseguire su quel cammino.

E magari arrivare al traguardo e rendere così onore a tanti maestri, a volte sfortunati, che hanno saputo muoversi controcorrente prima di molti altri, forse per questo incompresi e dimenticati.

Milano, 3 agosto 2012ROBERTO BONZIO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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