Carne finta: più che alla salubrità si punta all’estetica

Carne finta, più che nella ricerca di ingredienti si sperimenta su colore e compattezza del prodotto finale.

carne finta
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Chi l’ha assaggiata sostiene che sa di carne. Quale? Non è ancora decifrabile, tra manzo e maiale, ma ci stanno lavorando. I filamenti emessi dalla stampante 3D riescono a ricreare a loro modo la consistenza delle fibre di una fettina, ma per infondere il “gusto carne” all’impasto vegetale che compone la ciccia, Beyond Meat e Impossible Foods – le due aziende leader nel mercato americano della fake meat – ci aggiungono l’eme: una molecola equivalente dell’emoglobina dei vertebrati, contenente ferro, estratta da piante ma ricavabile anche dalla fermentazione del lievito transgenico, replicabile in laboratorio. Meno calorie, meno grassi, stesso effetto sanguinolento. Ma anche meno proteine e, quanto al gusto, sarebbe curioso far provare a un tester entrambe le versioni e vedere se indovina qual è finta e quale vera.

Carne finta: perché non tentare questa strada?

carne finta ingredienti

Forse non è propriamente un gourmet chi ha provato finora la “carne non carne”. Davide Maffioli – chef vegano per eccellenza – la trova immangiabile, di pessima qualità, lontanissima per odore e verosimiglianza da bistecche e salcicce reali. Promuove però il lato etico del business: visto che burger di seitan, tempeh e soia non hanno convinto molti consumatori, perché non tentare questa strada per convincere l’umanità a cambiare per sempre dieta ed eliminare la barbarie degli allevamenti intensivi? Sa un po’ di lobby vegano-animalista il successo di questo rivoluzionario comparto dell’industria alimentare (più industria che alimentare), basta tuttavia del buon senso per bocciare queste orrende strutture, crudeli per gli animali – privati della libertà e stipati in alveari – distruttive per habitat e terreni, e dannose per la nostra salute trattandosi di bestie nutrite spesso con antibiotici e quelle farine animali responsabili di mucche pazze, aviarie, febbri suine e da ultimo anche il Coronavirus dei pipistrelli.

Non è il tipo di animale di cui ci si nutre, ma come lo si è nutrito a fare la differenza. La carne di un pollo ruspante, che razzola all’aperto, è più scura, saporita e resta attaccata all’osso rispetto alla coscia di un pollo cresciuto in 50 cm di gabbia. Ma chi è abituato al McChicken forse non se n’accorge.

fake meat

Il problema è che più che alla salubrità si punta all’estetica, più che nella ricerca di ingredienti si sperimenta su colore e compattezza del prodotto finale.

Cioè su un’illusione ottica che, dalla retina, dovrebbe trasferirsi psicologicamente al palato. Se il gusto può essere soggettivo, che un mix di barbabietole, piselli e alghe abbia lo stesso valore proteico e apporto energetico di una bistecca, specie per un individuo in fase di crescita, è ampiamente smentito da dietologi e nutrizionisti. Se bisogna pure imprimergli gusto e aspetto-carne, il rischio è creare un composto processato davvero malsano. Vero che già ci rimpinziamo di alimenti non sani, come ricorda Maffioli, ma appunto per questo non si vede l’opportunità – anche etica – di implementarne l’uso di un ennesimo che non ha nulla di bio. L’anelito al ritorno alla natura e alle tradizioni stride non poco con il ricorso ad additivi che snaturano artificialmente il sapore originale della verdura, facendone inchiostro da cartuccia per dispositivi capaci di realizzare qualunque oggetto tridimensionale da un modello digitale. Sono un’infinità i settori di applicazione e i materiali: dall’aeronautica alla gioielleria, dalle plastiche ai metalli. Durante l’emergenza Covid sono tornate utili per stampare anche guanti e mascherine.
L’alimentare è la frontiera più delicata.

Già dal 2014 la Barilla “stampa” pasta fresca e progetta un nuovo elettrodomestico che entri in case e ristoranti al posto della macchina impastatrice. Ma penne e rigatoni sono pur sempre prodotti a base vegetale. La mucca invece, nell’immaginario che vorrebbero ingannare con molecole aromi liquidi ed edulcoranti, resta legata a un essere vivente, che pascola e cresce. È una forma mentis indipendente dalla mancata corrispondenza tra forma e sostanza: ad esempio le chele di granchio del supermercato, se leggiamo l’etichetta, scopriamo che sono di merluzzo. Che resta comunque un pesce. Negli Usa sono avanti, pure Bill Gates e Richard Branson finanziano l’idea ma – non occorrendo grossi capitali – anche altrove si sono gettati su un affare che profuma di nuovo. Le startup in primis

novameat.

Tra le più importanti la spagnola Novameat, guidata dall’ingegnere biomedico italiano Giuseppe Scionti. Alla Fiera di Milano 2019 hanno presentato i loro piatti la startup israeliana Redefine Meat, la russa Greenwise e l’italiana Food Evolution, che ha sede vicino Perugia. Un etto di carne 3D costa circa 3 euro: sicuramente meno della carne vera, di cui è però difficile stilare un costo medio variando molto in base a qualità, taglio ed esercizio dove si acquista. Costando una stampante di livello industriale da 3 ai 7mila euro, diciamo che dopo qualche quintale si rientra dell’investimento. Difficile credere a missioni umanitarie quando tanta scienza biochimica poteva essere messa al servizio della biodiversità e dell’agricoltura anziché per confezionare bistecche finte. Senza contare che la novità taglierebbe milioni di lavoratori in tutto il mondo, bastando un amalgama e un software a sostituire allevamenti, mattatoi, macellerie con professionalità non riconvertibili. Tecnologia e risorse ci sono, manca ancora il pubblico.

Lasciamo stare la tesi, come per gli Ogm, che aiutino il clima e addirittura risolvano la fame dei paesi poveri. Onu e Fao ripetono da decenni come solo gli scarti e gli sprechi del mondo occidentale bastino e avanzino a sfamare un altro continente. Quello che ci vuole è la volontà. Non ci sarà innovazione che tenga, finché mancheranno l’interesse e l’intenzione di risolvere le piaghe del Pianeta. Il pericolo non è nella tecnologia ma nell’uso che scegliamo di farne.

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Scritto da Giuseppe Gaetano

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