Gentilssimo architetto, le inoltro una email che ho condiviso con alcuni amici e colleghi. Da due anni ormai, abito (scrivo “abito” e non “vivo”, volutamente) in uno dei 19 siti “progetto C.A.S.E.” (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) collocati come satelliti intorno alla mia città distrutta dal terremoto. Come dice lei “La casa dissociata dalle relazioni è ancora peggio di non averla per certi versi”. Abitiamo (e non viviamo) appunto dissociati dalle relazioni.
Il problema principale qui, non è tanto l’attesa sfibrante di ritornare tra le proprie mura (nell’immobilismo di politica, interessi vari, furbi e furbetti, ladri e…) ma, dopo la diaspora (durata un anno nel caso della mia famiglia) e a distanza di 3 anni dall’evento sismico, è constatare di stare in un “non-luogo” fondamentalmente soli senza condividere con altri “forse-concittadini”, nevrosi, frustrazioni, gioie e dolori; senza più la cultura del “bello” che solleva lo spirito.
Le mostre, gli spettacoli, i saggi artistici, le conferenze (eccetera eccetera) si svolgono in saloni parrocchiali al neon, in capannoni industriali al diesel, in palestre scampate o in algidi centri commerciali che, per politica commerciale, non possono neanche spegnere la filodiffusione mentre ti ergi a cercare di seguire con gli occhi la tua bambina che suona uno strumento musicale o che danza sulle punte.
Nel leggere il suo articolo ho provato tante emozioni, ma su tutte quella più forte è la gratitudine per chi, come lei, con estrema sensibilità, pur non essendo dell’Aquila, ha colto e descritto perfettamente la situazione e le esigenze degli aquilani.
E intanto, i nostri figli consumano suole di scarpe nei corridoi o nei garages interrati dell’Aquilone.
Grazie per quello che ha tentato di fare e/o che tenterà (malgrado la buona volontà, l’esito è sempre incerto qui) di fare per noi. Anche a nome dei miei “forse-concittadini”.