Caso Cucchi, i limiti tra privato e pubblico su Facebook, “spiegati”

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In questi giorni c’è una notizia nel panorama mediatico che rappresenta un’ottima occasione per interrogarsi sulla ambiguità e i limiti di quelli che chiamiamo social media. La notizia riguarda la vicenda della morte del giovane Stefano Cucchi. In estrema sintesi la storia è questa.

Ilaria Cucchi è celebre per combattere una battaglia civile il cui scopo è avere giustizia per la morte del fratello – Stefano Cucchi – che è morto dopo quello che la procura ha definito un violento pestaggio, avvenuto in circostanze non completamente chiare durante il suo arresto per possesso di droga nel 2009.Il caso è recentemente tornato nel circuito dell’informazione in seguito alla diffusione da parte della stampa, di una intercettazione che aggraverebbe la posizione di alcuni degli indagati.

Lo scorso 3 gennaio sulla fanpage di Ilaria Cucchi è stato pubblicato un post in cui veniva condivisa una foto in cui appariva uno dei Carabinieri indagati – Francesco Tedesco – in costume al mare con i muscoli in bella mostra.

La foto, presa dal profilo Facebook dello stesso Tedesco, è stata pubblicata da Ilaria Cucchi con queste parole

Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso.

Questa foto ha scatenato una ridda di commenti dei fan della pagina di Ilaria Cucchi: molti sono di sostegno e appoggio morale, alcuni di difesa dell’operato dell’Arma, qualcun altro decisamente sopra le righe con toni piuttosto aspri. Questi commenti hanno spinto Ilaria Cucchi a pubblicare rapidamente un nuovo post in cui tenta di abbassare i toni “Non tollero la violenza, sotto qualunque forma. Ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui.

Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza”.

Tutto questo clamore creato dalla foto ha portato il legale di Francesco Tedesco, l’avv. Elio Pini a querelare Ilaria Cucchi per diffamazione ed estendere la querela anche ai commentatori violenti. Le reazioni incrociate dei protagonisti della vicenda hanno fatto si che se ne occupasse la stampa, creando una selva di dichiarazioni dei vari protagonisti coinvolti e di qualche politico sempre alla costante ricerca di visibilità a buon mercato.

Un dolore privato diventa un fatto pubblico

La domanda interessante dal punto di vista comunicativo è la seguente: come ha fatto la manifestazione di un dolore privato a trasformarsi in una reazione da parte dell’opinione pubblica a cui ha fatto seguito una copertura giornalistica che sembrerebbe spropositata rispetto ad una vicenda nata e cresciuta dentro Facebook? La risposta a questa domanda è molto più articolata di quanto potremmo immaginare ed è basata su una questione ancora più importante: Facebook è uno spazio pubblico o uno spazio privato? Detto altrimenti: se volessimo utilizzare una analogia per descrivere la natura delle conversazioni in Facebook, diremmo che sono simili ad una chiacchierata informale fra un gruppo di amici che discutono così come si farebbe al bar, oppure somigliano ai discorsi che vengono fatti da un personaggio pubblico rispetto ad una folla piccola o grande che sia?

Guardiamo da vicino tutti gli elementi.

Per prima cosa un ruolo importante è quello che gli studiosi chiamano il frame comunicativo, ovvero il contesto mediale che ha consentito l’innescarsi della polemica.Senza dubbio un elemento chiave è stato giocato dalla diffusione da parte di diverse testate giornalistiche delle intercettazioni che gettano una luce piuttosto sinistra sul ruolo delle forze dell’ordine coinvolte nell’arresto di Stefano Cucchi. Con questa notizia di cronaca giudiziaria, la stampa ha rinverdito una lunga vicenda che vede Ilaria Cucchi coinvolta non solo emotivamente in quanto sorella della vittima, ma come persona che porta avanti una battaglia civile per chiarire le circostanze che hanno portato alla morte del proprio fratello.

È in questo contesto che si gioca l’ambiguità del secondo elemento della vicenda: la pubblicazione della foto di uno degli indagati.Da un punto di vista strettamente comunicativo, il post di Ilaria Cucchi che contiene la foto presa dal profilo Facebook del carabiniere indagato, è l’amaro sfogo di una persona che vede in faccia la persona che presumibilmente è stata direttamente coinvolta nella perdita del familiare.

È un post personale, intimo, in cui si chiede un sostegno morale, affettivo da parte di tutti coloro che leggono quello sfogo.

È un messaggio che cerca quella che potremmo chiamare una pacca virtuale sulla spalla, quello che spesso le persone cercano quando – ad esempio – pubblicano il proprio dolore sui social network. Tra l’altro non è neanche un fenomeno nuovo. Già gli studi sull’uso interpersonale di internet dei primissimi anni del 2000 ricordano che l’uso della rete oscilla fra un modo del consumo (cercare informazioni) e il modo della comunità (cercare relazioni con gli altri).

Ci sono però due fattori che alterano il frame della confessione intima.

Primo fattore: lo spazio di pubblicazione, il “luogo” del messaggio. Il post non è stato pubblicato su un profilo personale, ma su una fanpage, ovvero su un luogo di Facebook che si connota come spazio pubblico e questo snatura il senso intimo del post. La questione è molto delicata e non è neanche appannaggio dei social media. Si pensi alle condoglianze: esprimere ad una persona il proprio cordoglio attraverso un telegramma o attraverso la pagina dei necrologi di un giornale, sono due forme che portano a percepire il cordoglio in maniera diversa.

Secondo fattore: la foto. È una foto che rappresenta una persona con un atteggiamento guascone, allegro, con una manifestazione di virilità esibita narcisisticamente, che ovviamente stride col dolore espresso dalle parole. Non è un caso che le reazioni dei commenti contro il carabiniere indagato vanno dal biasimo al disprezzo, fino a raggiungere toni forti. Non credo che ci sia stata una strategia in questo senso: possiamo ipotizzare che ciò che ha portato alla pubblicazione del post è proprio l’acuirsi del dolore dell’ingiustizia subita nel vedere un atteggiamento normale e fiero di sé da parte di una delle persone coinvolte.

Ma senza volerlo, Ilaria Cucchi ha attivato quello che in sociologia di chiama un rito di degradazione

Ovvero, ha messo in atto una strategia comunicativa che tende a trasformare l’identità pubblica di un individuo in una identità di natura inferiore. Innescando la reazione dei propri sostenitori – e detrattori – ma soprattutto della persona coinvolta che si difende attraverso il proprio legale.

Ed è qui il terzo elemento: la reazione istituzionalizzata da parte dell’oggetto del post.

Ovviamente era logico aspettarsi una reazione da parte della persona ritratta nella foto. Ma la reazione non è stata una reazione personale, ma pubblica poiché è avvenuta attraverso le parole del legale minacciando querele e cosi via dicendo.

Così si è compiuto lo scivolamento nell’arena del dibattito pubblico della vicenda che è diventata appannaggio della cronaca

Questa appropriazione da parte della stampa quotidiana e televisiva ha tematizzato l’evento prima rispetto alla legittimità della pubblicazione (era giusto che Ilaria Cucchi pubblicasse la foto?) e poi rispetto alle dichiarazioni incrociate dei protagonisti e degli opinionisti di turno (perché si, perché no, eccetera). D’altronde l’evento era più che notiziabile: c’è il contenuto (la foto), c’è la notizia (gli strascichi del caso Cucchi), c’è la dichiarazione dei soggetti coinvolti.

Sullo sfondo di tutto Facebook. Un social network in cui le conversazioni sono contemporaneamente private e pubbliche, individuali e sociali, faccia a faccia e mediali.

Conversazioni le cui caratteristiche dipendono profondamente dall’attenta gestione dei propri messaggi e delle reazioni dei propri lettori e che comunque non impediscono che le cose sfuggano di mano e trasformino un dolore personale in una esperienza collettiva.

DAVIDE BENNATO*

Catania 6 Gennaio 2016

*Docente di Sociologia dei media digitali presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche all’Università di Catania

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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