«Che mestiere fai? Giornalista.»«E per chi scrivi? Per nessuno in particolare. Sono un freelance.«Cioè sei disoccupato?»
Non è un dialogo inventato, ma uno scambio di battute che ho sentito spesso – con accenti diversi – nel corso degli anni. Dietro c’è (c’era?) un’idea molto radicata in Italia:
se non fai parte di una redazione come redattore “fisso”, non conti, non lavori, non esisti.
Che poi era così negli anni Sessanta Settanta e Ottanta. Quando a metà degli anni ’90 era già chiaro in quale direzione andasse l’organizzazione del lavoro giornalistico (e non solo), la categoria perse un’occasione d’oro: quella di attrezzarsi per tempo e arginare quella che sarebbe stata, con tutta evidenza, un’emorragia di posti di lavoro e un’ecatombe di testate.
E insieme perse anche l’opportunità per rinnovarsi.
Il ciclone Rete, Web, Internet, l’online, chiamatelo come volete, turbinò e risucchiò l’informazione facendo saltare tutti i “tetti” sicuri della placida editoria italiana. Cambiarono meccanismi di lettura, di diffusione, cambiarono i contenuti, il modo di scrivere. E cambiò il mondo del lavoro, appunto.
Il mercato del lavoro giornalistico, oggi, in Italia
Oggi il mercato del lavoro giornalistico ha assunto dimensioni paradossali e opposte a quelle di 30 anni fa. Dall’ultimo rapporto sulla professione in Italia, realizzato sulla base dei dati (aggiornati al 31 dicembre 2013) forniti dagli enti professionali (Casagit, Fnsi, Inpgi, Ordine dei giornalisi) a Ldsi.it il campo del lavoro giornalistico dipendente si restringe ogni anno di più, mentre cresce il lavoro autonomo.
Alla fine del 2013 la percentuale degli ‘’autonomi’’ sulla popolazione giornalistica attiva era 62,6% nel 2012 era al 59,5.
Parallelamente i redattori assunti sono scesi dal 40,5 al 37,4%. La forbice è larga anche nella parte dei redditi. Ma esattamente al contrario. Se anche nel settore tutelato dei dipendenti il salario medio diminuisce, la retribuzione media di un autonomo, che nel 2012 era di 11.2678 euro lordi, nel 2013 è di 10.941, il 3% in meno. I redditi medi del lavoro autonomo sono il 17,9% di quelli del lavoro dipendente, 5,6 volte inferiori.
Una situazione ingovernabile di cui gli editori si approfittano creando schiere di giovani (per lo più) giornalisti precari e sottopagati.
E che non riguarda solamente l’Italia.
Il cortocircuito tra informazione e professione è anche al centro dell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity. “Uno dei problemi che ho con Internet – ha dichiarato in più interviste lo scrittore americano – è che sta rendendo tutti freelance. È un cane che si morde la coda: qualcuno fa un enorme lavoro per trovare dei fatti, ma nell’istante in ci li pubblica vengono subito presi, linkati, twittati, copiati, senza che chi li ha scoperti venga adeguatamente compensato da chi li consuma. Io, come romanziere, ho la fortuna di essere pagato bene per i contenuti che produco, e non vedo perché ai giornalisti non dovrebbe succedere altrettanto”.
Tidbit, la “piazza” virtuale per i contenuti giornalistici
L’idea ci frullava in testa da un paio di anni, da quando scoprimmo online i siti di Pitch me e di Newsmodo, uno anglo-americano, l’altro australiano. Che cosa proponevano? Una “piazza” virtuale di vendita/acquisto di contenuti giornalistici. In altre parole: sei un freelance? Fai qui la tua vetrina, vendi il tuo prodotto. Sei un editore? Vieni a guardare le nostre vetrine e compra quello che ti interessa. Pagamento diretto, sicuro.
Come vedete un’idea semplice. Certo loro avevano un vantaggio incolmabile per noi: la lingua. L’inglese i effetti, ti mette mezzo mondo – e anche di più – a disposizione. La situazione in Italia era in una fase di stallo: le difficoltà di inserimento in un qualsivoglia “mercato” per i più giovani e per gli esuberi provocati dalla chiusura delle testate, la crescente “disorganizzazione” economica tra domanda ed offerta e, ultima non ultima, la difficoltà nella riscossione “crediti” da parte dei freelance per le collaborazioni fatte, tutto ciò stava inghiottendo professionalità e creatività.
Un anno di chiacchere e un anno di progettazione e poi…
abbiamo vinto un bando della regione come startup innovativa e ora tidbit.it è online.
Sappiamo di esserci cacciati nei pasticci: se c’è un segno uniforme nel mondo dell’informazione in Italia, è la conservazione, sia tra i giornalisti che tra gli editori. Esiste una diffusa cultura del “sospetto” con cui si guardano iniziative poco conformi alla tradizione o alle avanguardie: chi c’è dietro, non può funzionare, chi tutela chi, i diritti di chi scrive, i doveri di chi pubblica, chi ci guadagna, chi ci perde, non ci sono soldi. Da quando siamo “usciti” ne abbiamo sentite tante o, non sentite, perché anche il silenzio o la ostentata indifferenza, la dicono lunga.
Certo è difficile contestare le critiche di chi dice che la caduta verticale di credibilità dei giornali dipende anche e sopratutto dalla scarsa qualità dei contenuti perchè si lavora a cottimo, da esterni, o perchè una volta “entrati” con la raccomandazione che ti garantisce il percorso stage-contratto-di-prova-stipendio sei sempre vicino al licenziamento perché c’è la crisi. Ma noi non ci siamo arresi.
Reagire alla crisi del giornalismo
Tidbit, in gergo giornalistico americano indica una “chicca”, un notizia prelibata. Oltra a questo, per noi è diventato l’acronimo di testi immagini documenti in bit. Una formula concisa per spiegare il flusso di contenuti da autori a editori.
Se sei un autore, ti registri e da quel momento hai la tua “bacheca” con i tuoi lavori inseriti. Ovviamente puoi inserire contenuti di qualsiasi tipo: testi, foto, video, webdoc, cose future. Dipende da te. Puoi inserire un “pezzo” pronto o ancora da fare. In questo ultimo caso inserisci anche la data entro cui sarà pronto. Indichi poi la lunghezza (o durata, o numero di foto se è una galleria fotografica) e il prezzo che richiedi per quel contenuto. Fatto. Noi, che saremo dietro le quinte, verifichiamo che nel testo o nelle immagini non ci siano elementi contrari alla nostra policy (tutto nei Termini e Condizioni da accettare) e da quel momento il contenuto è online per essere acquistato.
Se sei un editore, ti registri e inizi a navigare nelle vetrina di tidbit dove puoi cercare con diversi motori di ricerca qualcosa di specifico o curiosarci dentro. Se trovi un contenuto interessante lo puoi acquistare direttamente.Ma per l’editore c’è anche un’altra opzione, quella di richiedere un contenuto, in inglese si chiama “assigment“: un compito, un incarico, richiedere un contenuto fissando tempi e compenso. In un’area riservata si invia la propria proposta e l’editore sceglierà quella che riterrà migliore.
Tidbit.it è per ogni “tipo” di scrittore, studioso, esperto, professionista, pubblicista.
Solamente un paio di richieste: qualità dell’informazione proposta e dignità del proprio lavoro: per svendersi a 10 euro a pezzo ci sono già tante strade.
Dicevo che le piattaforme anglosassoni sono più fortunate per via della lingua. Ma noi, ci siamo detti, abbiamo l’Italia, con i suoi mille problemi – che magari interessano meno – ma con le sue mille particolarità che tutto il mondo ama. Così stiamo cercando di dare una impulso importante alle “vendite” all’estero: testate piccole o grandi, online o cartacee, che amano la lirica, il mare, le Dolomiti, i calciatori, le scienziate, le astronaute, i miti, gli Uffizi, la creatività. E a questo proposito vorei anche dire che tutto questo nasce da una piccola società, la nostra, che si chiama Menabò (formata da amici ed ex colleghi, Antonella Marrone, Cristiana Pulcinelli, Laura Pecchioli, Andrea Milluzzi) e che non vuole fermarsi a tidbit. Il mondo dell’informazione è pieno di contenuti (credibili? questa è tutta un’altra storia) e pieno di strade. Ci saranno tante occasioni di incontro, ne siamo certi.
ANTONELLA MARRONE
Roma, 10 Dicembre, 2015