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Che cosa insegna il fallimento di Quirky ai makers

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Nell’ultimo anno chi segue l’account twitter di Business Insider ha potuto vedere diversi articoli che hanno documentato la rapida fine di Quirky tra la vendita della sua piattaforma IoT (Wink), l’utilizzo di una sorta di cassa integrazione (layoff), e l’impossibilità di riuscire in nuovi round di finanziamento.

Il fallimento di Quirky va preso molto sul serio: sono stati bruciati 170 milioni di dollari di alcuni dei migliori venture capitalists americani. In secondo luogo, Quirky è stata a lungo una piattaforma presa a modello da chi seguiva il fenomeno dei makers e cercava delle forme di sostenibilità economica (potete verificare, per esempio la cito anch’io nel mio L’impresa open source).D’altra parte i numeri di questa comunità di innovatori che cercava di democratizzare il design di prodotto erano davvero impressionanti: 1.157.251 membri e 285.965 invenzioni iniziate nei 6 anni di vita.

Un ottimo articolo di Ben Einstein, founder di Bolt, spiega le ragioni economiche del crollo. Per sintetizzare, Quirky ha voluto innovare in troppi campi e lanciare sul mercato troppi prodotti contemporaneamente. Avrebbe dovuto lanciare pochi prodotti e lavorare con la community per migliorarne l’impatto e le vendite, affinandoli in base ai feedback.Si è invece lanciata in uno sforzo improbo, anche se hai alle spalle centinaia di milioni di dollari, perché i mercati sono estremamente competitivi e alcuni dei migliori venditori hanno poche linee di prodotti sviluppati dopo decine di versione migliorative – penso chiaramente a Apple o GoPro.

Al di là di queste considerazioni da addetti ai lavori, ritengo utile pensare ancora ai maker, e al potenziale di successo di chi intende progettare insieme ai consumatori – o addirittura intende trasformare tutti i consumatori in auto-produttori.

La mia opinione è che Quirky abbia fallito perché ha pensato che piccole innovazioni incrementali potessero piacere ai consumatori. Se analizzate il suo shop trovate idee carine, migliorie che non ci cambiano la vita; nulla di fondamentale, perché spesso ridondante rispetto ad altri device (servono davvero forbici come queste? )

Un altro errore quirkyano, che potremmo fare anche noi, consiste nel prenderci a consumatori ideali e nel proiettare sui nostri prodotti tutto quello che desideriamo. C’è una ragione per cui il product designer segue una formazione apposita, ed è evitare di creare l’automobile di Homer Simpson. In una puntata che consiglio a tutti gli startupper hardware, Homer scopre di avere un fratello gemello che fabbrica automobili, Herbert. Il fratello lo invita a sviluppare la sua auto dei sogni, identificandolo come perfetto “americano medio”, Homer crea un obbrobrio pieno di “tamarrate”, un incrocio tra una Bentley e un’astronave: stranamente l’azienda del fratello fallisce non riuscendo a vendere il modello.

Credits: http://simpsons.wikia.com/wiki/The_Homer

Vedendo questi prodotti di Quirky potreste pensare che il mio paragone non sia poi così esagerato.

È un errore che potrebbero fare anche i makers e che forse stanno già facendo, giudicando da alcuni progetti che si vedono on-line e alla Maker Faire. Negli ultimi mesi la pratica presso Thinkalize, a stretto contatto con ottimi designer, mi ha insegnato alcune cose che trovo utile condividere.

CHE COSA PIACE AI CONSUMATORI?

Non nascondiamocelo, anche se fa volgare, alla quasi totalità piace risparmiare. Perché i soldi sono pochi e i desideri tanti. Un prezzo alto o ritenuto irragionevole impedisce ai più di approfondire la conoscenza del prodotto, e di perdersi i valori che lo hanno generato: per questo tagliare costi inutili dovrebbe diventare la vostra attività preferita, se volete vendere davvero.

Poi ai consumatori piace ciò che li fa sognare. Non c’è che dire, nel movimento maker e nelle comunità open source c’è parecchia insofferenza nei confronti del capitalismo: diciamo basta alla produzione industriale, allo spreco, al prodotto inutile, alla dittatura delle corporation. Eppure la maggioranza dei consumatori cerca ancora soddisfazione dall’atto stesso di consumare, e dall’uso dei prodotti/servizi acquistati. Perché i prodotti portano con loro esperienze: da apprezzare, condividere, comprendere. Ci consentono di estendere le nostre capacità, penso agli strumenti per gli sportivi, di migliorare la nostra vita rendendola più comoda (lavatrice, lavapiatti… non datele per scontate!), di amplificare dati, emozioni, conoscenza.

Se talvolta percepiamo un’inutilità pratica negli oggetti acquistati dobbiamo immaginare che si nasconda un’utilità psicologica, e non è così difficile indovinarla: ai consumatori piace sentirsi fichi o veder riconosciuta una qualche identità. Non è immediatamente utile, ma aumenta la nostra sicurezza. Ebbene sì, lo ammetto, piace anche a me. Compro un bell’abito che mi fa sentire a mio agio – o qualcosa di più. Mi sento fico se qualcuno nota il mio ipod classic da 160 Gb o apprezza le mie scelte in tema di vini. Non è puro narcisismo, a volte ci si sente bene perché si è soddisfatti delle proprie capacità di scelta – e, quindi, potremmo aggiungere che ai consumatori piace la grande qualità, la grande differenza.

Le cuffie che mi sono comprato recentemente – e che non divulgo per evitare di fare pubblicità – sono davvero di un ottimo livello qualitativo. Del genere che i maker non realizzeranno mai. Perfette le rifiniture, il design, i piccoli dettagli che le rendono comode.D’altronde anche i consumatori evolvono, e hanno piacere a che venga riconosciuta la propria esperienza. Per quanto sorprendente, si impara a consumare; cogli anni si riesce a selezionare il meglio, o il più adatto alle proprie esigenze. Dove siete particolarmente esperti cercate il dettaglio che vi stupisca, perché solo un esperto apprezza il dettaglio.

Poi, certo, non tutti evolvono. Scopri che a tanti consumatori piace quello che gli viene detto. Tanti si lasciano trascinare. Le enormi spese di marketing di tante grandi aziende dimostrano che bombardare di pubblicità consente di vendere prodotti bruttini e raramente innovativi.Perché il consumo è un’attività sociale, e guardiamo gli altri quando valutiamo gli acquisti da fare, aspettiamo il giudizio altrui per capire se abbiamo comprato bene.

UNA VIA MAKER AL CONSUMO INTELLIGENTE?

Dovremmo domandarci che cosa sia il consumo intelligente, perché potremmo scoprire di avere opinioni divergenti. Lungi da me definire l’intelligenza, problema complesso anche per gli scienziati cognitivi; la risposta che mi ha dato Google è molto interessante: “Capacità di attribuire un conveniente significato pratico o concettuale ai vari momenti dell’esperienza e della contingenza”.

L’idea di consumo intelligente oggi comune è di tipo strategico: consumo di lungo periodo, evita gli sprechi, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, l’inquinamento.Eppure se ho poco tempo libero potrei ritenere più intelligente risolvere i problemi del mio smartphone comprandone un altro, piuttosto che portandolo a riparare perdendo ore preziose (e spendendo un importo simile). Da una prospettiva individuale l’intelligenza è diversa e, ahimè, molti consumatori antepongono la propria individualità alla visione di ampio respiro.Problemi da tenere in considerazione quando si pensa che i valori di apertura e personalizzazione siano auto-evidenti e non, semplicemente, relativi al nostro sostrato culturale. Serve maggiore cultura, un’opera di “propaganda”, oppure dobbiamo cedere e accettare che i consumatori si aspettino da noi prodotti che siano anche belli, piacevoli, identitari?Trasformare l’open source in qualcosa di cool non rischia di tradirne i presupposti filosofici?Ci vorrà un po’ per trovare delle buone risposte, ma intanto cominciamo a porci domande franche.Può essere utile guardarsi intorno: come va l’open source nel software? Benissimo in rete (WordPress, server Unix), male nei sistemi operativi, dove la famiglia Linux è ancora all’1% di diffusione e non pare crescere. È perché non ci capiscono, dopo 24 anni di Linux, o perché il consumatore vuole facilità e immediatezza? Se nell’hardware rimanessimo all’1% avremmo problemi seri di sostenibilità economica, chi investirebbe infatti le cifre richieste per impianti manifatturieri per conquistare l’1% del mercato?

E SE GLI ARTIGIANI CI VENISSERO INCONTRO?

Qui può tornare utile l’idea, ancora tutta da dimostrare, che maker e artigiani possano imparare qualcosa l’uno dall’altro. Sono sicuro che gli artigiani abbiano più familiarità con i concetti sopra discussi, con la cura del particolare, con l’attenzione al consumatore.

Il piacere estetico, il godimento delle piccole cose che funzionano, non sono residuati anti-rivoluzionari, né rifugi di menti mediocri. Sono fattori che migliorano la qualità della vita al pari di visitare teatri e musei, e meritano una dignità epistemologica.Perché c’è differenza, per un consumatore educato, tra ascoltare musica e ascoltare musica con delle cuffie eccellenti, tra un mp3 e un CD. E mostrandovela vi sta anche dicendo che, in molti casi, ha delle solide basi intellettuali per giustificare le proprie scelte, ed apprezza il fatto che queste basi vengano riconosciute.

ESISTONO BISOGNI SPECIALI?

Era tutto un inganno? Naturalmente no.

La battaglia dei makers è culturale, e può avere dei buoni risultati.

Perché il consumatore deve capire che può chiedere prodotti meno standard e più vicini alle proprie esigenze. Ma la personalizzazione, ahimè, non ha bisogno dei makers. Qualunque grande azienda, appena capisca il potenziale del prodotto su misura realizzato attraverso la manifattura additiva, può comprarsi un po’ di macchinari e sperimentare. Magari si rivolgerà a esperti di progettazione e stampa 3D, e li cercherà nella community, magari no – e i makers rimarranno chiusi nei loro garage a convincersi dell’importanza della condivisione.Per quanto concerne l’ambito della calzatura la strada è abbondantemente avviata: Adidas stampa suole e spiega che attraverso un tapis roulant nei suoi negozi sarà in grado di capire le esigenze dei suoi clienti.

CHE NE SARÀ DEI MAKERS?

Grazie ad alcuni giganti economici realizzati da secchioni, ci siamo accorti del lato affascinante dei nerd. I makers ne hanno certamente approfittato, aggiungendo la loro praticità che li rende quasi magici agli occhi dell’incompetente tecnologico medio che pensa “potrebbero aiutarmi a riparare la mia amata bici, il mio stereo rotto, lo schermo del mio smartphone ecc”.

Diversi makers sono convinti che i FabLab dovrebbero dedicarsi solo all’educazione, più facile finché si vincono bandi pubblici, ma mi domando se questo non rischi di chiuderli in un circolo vizioso. Che fascino può avere per gli studenti un rifugio di auto-estromessi? Se ti insegno cose di nicchia, non spendibili sul mercato, che vantaggi hai dall’impararle?Mi aspetto che un FabLab possa avere più successo se al suo interno si insegna un approccio a 360 gradi all’innovazione di prodotto, capace di conciliare l’open source con le esigenze estetiche dei consumatori. E sarà tanto più facile se gli artigiani frequenteranno i FabLab e i maker accetteranno il nostro lato spensierato. D’altra parte anche i movimenti ecologisti un tempo erano una nicchia: se oggi sono diventati mainstream dobbiamo anche ringraziare l’avvicinamento ad altri valori – il “buon vivere” su tutti. Slowfood riesce nella sua opera di difesa della biodiversità anche perché insegna a mangiare bene – a provare piacere dal proprio consumo di cibo. Il futuro sarà dei prodotti belli, ben fatti e open? Lo spero sinceramente, e non mi pare impossibile.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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