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Chi fa davvero Tv in Italia: un pensionato di Bologna e altre 10mila persone

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Io il futuro lo incontro da diversi anni in ogni angolo d’Italia, nei posti più impensabili, nei luoghi spesso poco conosciuti anche a noi italiani che amiamo questo straordinario paese. È un futuro che è scritto giorno dopo giorno da cittadini di ogni ordine e grado che con pazienza e voglia di fare hanno deciso di accendere videoblog informativi, Web Tv territoriali, piccoli portali di informazione locale che illuminano la loro comunità, le loro storie, la loro gente.

Questi cittadini videomaker sono figli di un’Italia che abita nella provincia sì denuclearizzata, ma dove la banda larga è ancora una chimera. Oppure respirano la quotidianità degli affollati rioni delle nostre metropoli. Questi cittadini sono i moderni cantastorie che cercano di riannodare narrazioni un tempo corali e oggi disperse nelle varie solitudini.

Una delle prime volte che ho incontrato questi cittadini respirando un’idea di futuro è stata a Bologna, al civico 4 di via Casini nel quartiere Pilastro, tristemente noto per i fatti di cronaca della Uno Bianca. È lì che nel 2004 ho conosciuto Gabriele Grandi, un pensionato all’epoca settantaduenne, e una decina di suoi vicini di casa, tutti impegnati a videoraccontare la quotidianità nella prima tv italiana di condominio.

Tra i palazzoni di questa periferia bolognese Gabriele nel 2001 decise di accendere Teletorre19, una televisione interna per comunicare con i suoi dirimpettai. Così le settantadue famiglie del palazzone – chiamato proprio Torre19, la diciannovesima torre bolognese – iniziarono a raccontarsi anche davanti ad una telecamera, a guardare film noleggiati al blockbuster e trasmessi soltanto per loro in una programmazione a circuito chiuso, una delle prime offerte premium che la Tv italiana abbia conosciuto.

Obiettivo di Teletorre19 è stato sin da subito quello di informare sul traffico della tangenziale al mattino nell’ora di punta grazie ad una webcam. Così ho conosciuto Gabriella, intenta a presentare le ricette dalla cucina di casa sua (e nel frattempo a spadellare per tutta la squadra tecnica). Ho conosciuto Oriano, chiuso in un gabbiotto di sei metri per due allestito con croma key fatto in casa e intento a raccontare la storia del quartiere, lui che nel quartiere c’era nato settantaquattro anni prima. C’era Natale, impegnato ad aggiornare il palinsesto della tv nell’androne di casa, in una bacheca di condominio.

Di lì a pochi mesi nello stesso palazzone grazie a questa straordinaria Tv di comunità nacquero anche una palestra, una biblioteca e una sala biliardo.

Per autofinanziarsi ancora oggi ogni mese Gabriele e gli altri promuovono tombolate. C’è voglia di fare comunità, di ritrovarsi. “Ma noi non abbiamo nulla a che vedere con le nuove tecnologie, qui abbiamo sempre cercato di condividere il tempo libero tra amici”, si è schernito quasi subito Gabriele.

Gabriele e quelli come lui. Intraprendenti, generosi, creativi, non necessariamente nativi digitali ma innamorati della rete nella sua accezione più nobile, quella della partecipazione, della condivisione.

Correva l’anno 2004 e di li a pochi mesi iniziarono a moltiplicarsi un po’ ovunque in Italia queste forme di videopartecipazione dal basso, piccoli grandi miracoli di creatività digitale domestica. Chiamiamola viralità o semplicemente voglia di esserci. Chiamiamola come ci pare, fatto sta che a Senigallia qualche mese dopo un’associazione di diversamente abili sarebbe scesa in strada per videodenunciare le barriere architettoniche della città.

A Reggio Emilia un gruppo di giovanissimi avrebbe reinventato il videocitofono di casa, arrivando a registrare i messaggi della comunità per poi portarli all’attenzione del signor sindaco, trasformando di fatto il citofono in un megafono dei problemi della collettività. Nel frattempo di lì a breve nella Capitale una giovane videomaker avrebbe acceso Monti Tv, la Web tv del rione romano collocato alle spalle del Colosseo, un tempo ricco di antiche botteghe artigiane oggi in fase di mobilitazione, con i locali acquistati dai cinesi e trasformati in saloni per parrucchieri o peggio ancora lasciati sfitti.

Questa è davvero la storia di un’altra Italia. Un’Italia che non fa notizia ma fa rete. Un’Italia composta da Web tv fatte in casa che si annidano ovunque e che costruiscono democrazia raccontando la realtà. Senza filtri. Senza censure. Ma è anche la storia di giovani imprese e buone idee che crescono, si sviluppano e creano lavoro nell’Italia della recessione, dei furbetti e delle cricche.

Piccole televisioni online che aggregano vicini di casa ma che dialogano anche con chi è geograficamente molto lontano. È il caso della siciliana Messina Web Tv, dell’abruzzese Torano Tv, della varesotta Pierodasaronno, canali video che ricevono costantemente segnalazioni dall’America, dal Brasile e dal nord-Europa da parte degli italiani espatriati nel mondo. Web tv coraggiose e altruiste, come la combattiva TeleJato impegnata a denunciare la mafia di Cinisi o la catanese Telestrada, intenta a dare voce ai senza fissa dimora raccontando la loro quotidianità.

Le Web Tv negli ultimi tempi sperimentano e diventano vere e proprie imprese, aziende di comunicazione che operano per il territorio. Più business, con squadre più numerose e mature. È il caso della Web Tv di Pordenone Pnbox, che registra un fatturato di 400mila euro e uno staff di 14 collaboratori. L’imprenditore che l’ha messa in piedi ha anche aperto la prima restaurant Tv in Italia: si cena e si va online, e acqua, pane e Internet sono gratuiti.

Così dal 2004 ad oggi le web Tv si sono moltiplicate, complici l’abbattimento dei costi del digitale, una soglia di accesso ai sistemi di produzione più bassa e una maggiore alfabetizzazione verso le nuove tecnologie. Nel primo trimestre di quest’anno con il nostro osservatorio e network Altratv.tv – nato proprio nel 2004 a Bologna su ispirazione di Carlo Freccero – abbiamo mappato 642 Web Tv in Italia (erano 590 soltanto a fine 2011, con un tasso di crescita sul 2010 dell’11%). Ad oggi stimiamo un fatturato di 10 milioni di euro per diecimila addetti tra operatori diretti e indotto. In realtà ciò è dovuto anche ad un riconversione professionale dei lavoratori delle Tv locali: i comunicatori si sono riversati in rete dopo la chiusura di molte storiche emittenti, penalizzate dal digitale terrestre.

Oggi le Web tv hanno imparato a fare squadra, a trasmettere “a rete unificata” eventi e inchieste. La rivoluzione dal basso delle Italie digitali passa così anche per i migliaia di post che si condividono, le tag che si moltiplicano, i video in share, i cancelletti che si aprono dai palinsesti di queste Tv, dischiudendo idee e qualche volta indignazione.

Ora il fenomeno vive una fase più matura, oltre i facili entusiasmi di un tempo, cercando nuovi modelli di business e soprattutto alleanze solide col territorio. Perché la sostenibilità di queste piccole grandi “antenne” italiane passa anche per le sinergie con le piccole e medie imprese nostrane. Anche grazie all’alleanza tra nuove Tv, comunità territoriali e aziende si possono riconvertire i distretti industriali “analogici” del passato in digitali. È anche da qui che occorre ripartire per immaginare e vivere il futuro.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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