Chi sono le persone che raccontano la vera storia del terremoto

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Mettiamola così. Nel migliore dei mondi possibili, Candide non sarebbe andato in Emilia a scattare fotografie a ridosso del terremoto che ha sconvolto così tante vite. E se vivessimo in quel mondo potremmo essere manichei e tracciare delle linee dritte su un’ipotetica lavagna.

Sciacallare sul dolore altrui è male; raccontare per sensibilizzare è bene. Correre a fare turismo fotografico è male; investigare con giornalismo di inchiesta sano e onesto è bene. Chi opera nei soccorsi fa e non racconta – e questo è bene; chi deve raccontare deve aspettare; e se invece lo fa prima intralciando i soccorsi fa male. Ma non viviamo in quel mondo; e la nostra quotidianità è fatta di aree grigie e di confine (anche intellettuale).

Purtroppo la fotografia, dando sfogo alla voglia di comunicazione e di penetrazione intima di una storia, può far leva su sentimenti e valori poco nobili come la curiosità morbosa, la retorica del dolore e l’estetica della tragedia.

Fortunatamente non tutti sono così. Molti, moltissimi volontari di Shoot4Change stanno scalpitando per andare in quelle zone a raccontare storie che presto diventeranno memoria. Sono tante le email che ricevo quotidianamente di fotografi che vogliono mettersi a disposizione e dare voce a chi sta per essere dimenticato.

Mi chiedono come mai S4C non sia già in zona. Rispondo in maniera molto netta: perché non è ancora il nostro momento; ci andremo tra poco in maniera strutturata e approfondita. S4C arriva quando l’ultimo riflettore dell’informazione mainstream si è spento; quando la storia rischia di diventare buia e dimenticata. Semplice.

Ma negli ultimi giorni sta succedendo una cosa molto interessante. Alcuni volontari di S4C non mi hanno dato retta ed hanno, fortunatamente, cominciato a raccontare lo stesso le loro storie…

A modo loro, a modo nostro… bene insomma.

E con modi e approcci a volte diversi ma sempre uniti dalla stessa passione per il racconto lontano dagli stereotipi della comunicazione tradizionale. C’è ad esempio Francesca Guerrini che, nelle zone colpite quotidianamente dal sisma, raccontava tutt’altro e ha cominciato a seguire altre storie “minori” (e quindi per noi più importanti).

C’è poi Andrea Cardoni, volontario non solo di S4C ma, grazie a Dio, anche e soprattutto dell’ANPAS (gli straordinari volontari della protezione civile che appaiono immediatamente ovunque ve ne sia bisogno). Con Andrea ci siamo sentiti spesso durante l’emergenza. Sempre attivo, sempre a farsi in quattro (come tutti i suoi colleghi), non perdeva però occasione per raccontare in tempo reale quello che faceva. Perché è questo quello che sta accadendo: l’incontro tra S4C e mondo del volontariato, sta dando vita a nuove figure di volontari che “fanno e che raccontano”.

È una cosa importante e non banale. È la zona grigia nella quale ci muoviamo e che non avrebbe forse senso nel mondo volteriano. E – fateci caso- entrambi i casi che ho citato, raccontano storie attraverso uno smartphone. Non occorre portare pesanti e ingombranti attrezzature. Basta un telefono per immergersi in una storia.

Instagram può raccontare – a volte meglio che con i mezzi tradizionali – la vita dei campi, le riunioni dei volontari, il montaggio delle tende, le associazioni che hanno perso la sede (come la croce blu di San prospero che è riuscita a salvare solo una ambulanza di pezza). O i disegni dei bambini provenienti da tutto il mondo appesi sui container, la nuova sede della croce blu di Mirandola che è stata donata, trasportata e ricostruita dai volontari della croce bianca di Bolzano, le comunicazioni via radio, i volontari che dopo ogni scossa controllano i vari siti nelle tende, gli avvisi sulle bacheche dei campi scritti in tanti idiomi, tanti quante le culture delle persone presenti al campo.

Prima di questo post, avevo intenzione di scrivere qualcosa sul ruolo della cosiddetta iphoneography. Internet (e non solo) abbonda ormai di discussioni, thread, flames, gruppi Facebook e chiacchiere varie (spesso a vanvera) sulle nuove tendenze della fotografia e sullo scattare veloce con gli smartphone e con le tante app disponibili. Confesso che sono discussioni sterili e che non mi appassionano. Poco più di rumore di fondo. Eppure, recentemente ho partecipato ad un Instameet a Firenze organizzato da dotmedia e dalla comunità degli Igers locali (Igers sta per Instagramers, coloro che usano Instagram. Lo dico per i non nativi digitali, e adesso non fate finta di sapere già il significato).

Nel puro stile degli Instameet, è stata una bella occasione per vedere (o rivedere) vecchi amici vicini e lontani. E associare un volto ad un nick Instagram. Si è parlato, tra l’altro, di Shoot4Change, del progetto “Africa attraverso l’iPhone” dell’amico Stefano Pesarelli, del web doc Questa è l’Aquila e di tante altre belle idee creative.

Ma soprattutto è stato un bell’evento per parlare di iphoneography e del futuro della fotografia fuori dai luoghi comuni e dalle banalità. E poi un incontro memorabile: Alinari ed Instagram. Ovvero, quando la fotografia apre gli occhi, si guarda intorno e capisce che le cose, in effetti, non stanno cambiando. Capisce che le cose sono già cambiate. L’attenzione e il rispetto con cui ormai si tratta l’iphoneography (per la quale, citando Stefano Pesarelli, ricordo che occorre sempre l’occhio di un fotografo!) lascia ben sperare.

Peraltro, per certi versi, Instagram, Hipstamatic e compagnia bella cosa sono se non un (non timido) ritorno a certi gusti del passato per la fotografia analogica? Ci avete mai pensato? Il formato quadrato delle immagini è il medio formato delle belle fotografie di un tempo (con conseguente impatto su composizione e modi di vedere il mondo); l’applicazione dei filtri simula la resa delle pellicole di un tempo. E i tempi di scatto tra una foto e l’altra impongono immagini più ponderate e attese più romantiche. Ma sto divagando, magari ne riparliamo un giorno con più calma.

Avete notato che le foto che ho mostrato prima sono state scattate con Instagram? Ho chiesto ad Andrea Cardoni perché raccontare con Instagram e con un iPhone e lui mi ha risposto così:

Raccontare e Condividere storie della volontà di uomini e donne che da volontari fanno la loro storia con chi ha perso tutto. Perché con instagram e il mobile stiamo costruendo community diverse dal mainstream e siamo liberi di discostarci dalle telecamere che cercano la sola sofferenza e la distruzione. Riusciamo a far memoria in tempo reale della storia di una mobilitazione di gruppi organizzati di persone che soccorrono altre persone...”

Bum! È tutto lì: “far memoria in tempo reale”. Perché il futuro è anche fatto di memoria. E la memoria si costruisce adesso. Perché dimenticarsi di chi sta soffrendo e di chi sta dando l’anima per portare sollievo, è un attimo… Ci giochiamo il futuro, signori. E in questi casi anche un iPhone può cambiare il mondo. Vi lascio con una domanda provocatoria che rivolgo a chi critica l’iphoneography: se la mia Nikon facesse le telefonate, sarebbe telefonia?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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