A colazione yogurt greco, noci, fragole e banane. A pranzo insalata di pollo e spinaci, con uva per dessert. A cena arrosto di manzo, pilaf di riso e arance. Nelle quantità desiderate. È l’esempio di un giorno di dieta ideale per l’organismo, nella civiltà industrializzata del XXI secolo, secondo un’importante ricerca condotta nel Maryland su dei volontari dal nutrizionista americano Kevin Hall, divulgata poco prima della pandemia di Covid e citata di recente anche dal Guardian. Sì all’alice fresca no a quella sott’olio, sì alla spremuta di pompelmo no al succo concentrato nel cartone, si alla polpetta di macinato no all’hamburger industriale di tofu o seitan, sia pure “vegano al gusto di melanzana”, o alla zuppa tradizione imbustata nel surgelatore. No in generale a tutto ciò che è conservato in scatole, bottiglie e barattoli.
Vale anche per tanti alimenti venduti per light, dietetici, energetici o vitaminici. La sana abitudine di leggere le minuscole etichette rivela a volte un cocktail micidiale di esaltatori di sapidità, edulcoranti, addensanti.
Il cibo del futuro
Non sembrano acquisizioni così originali, tuttavia chi riesce a rinunciare a pane e dolci confezionati, insaccati, cioccolate, bibite? Ghiotti e a buon mercato, poveri di nutrienti essenziali – fibre, carboidrati, proteine – ma ricchi di zuccheri e oli: un’autentica droga che crea dipendenza, che non brucia come il grasso di una bistecca ma si diffonde nei tessuti.
È l’organismo che la richiede quando prendono quelle insane e improvvise voglie di snack e merendine. Eppure è scientificamente provato il collegamento tra i prodotti cosiddetti “ultraprocessati” – cioè estremamente raffinati, fermentati, trasformati con additivi ed emulsionanti – e le conseguenze dirette e indirette sullo sviluppo di patologie, tra cui l’obesità.
Basta una puntata di Vite al limite del dottor Nowzaradan per comprendere anche il risvolto psicologico di questa bulimia nervosa più forte della volontà, presente non solo nei paesi occidentali: sofferenze e depressioni che sfociano in pasti compulsivi e incontrollati, a base di alimenti in grado di rilasciare una soddisfazione immediata. C’è anche il cancro tra gli “inconvenienti” di una tale dieta.
Per il menù virtuoso, Hall ha speso però il 40% in più rispetto a quello rifilato al campione andato avanti a bistecche precotte, purè in polvere e plumcake alla vaniglia.
Altri esperti correlano infatti i disturbi alimentari alla povertà, alle scelte cui spesso sono costretti gli strati più indigenti della popolazione, per cui gli “ultraprocessati” costituiscono il pane quotidiano a causa del costo elevato che comporta la scelta bio. Ricerche come quella di Hall non godono inoltre del battage pubblicitario della grande industria alimentare, che si rivolge spesso ai bambini come destinatari finali dello spot.
Ma privilegiare il cibo fresco – sia carne, pesce, frutta o verdura – che deperisce quindi più rapidamente, non è facile anche per una questione di tempo, specie per chi vive e lavora oggi in una grande città. Le riscoperte del negozio sotto casa rispetto al discount e degli ingredienti base come farina e lievito rispetto a quelli più sofisticati, sono state forzate dal lockdown, che ha limitato i movimenti e abbattuto per oltre due mesi altre voci di spesa.
Cosa resterà nel carrello con il crollo del Pil e una crisi dei consumi che, allo stato, si prospetta fino a tutto il 2021? I risparmi in cui gli italiani eccellono, che piacciono tanto alle Borse, derivano in realtà dalla paura e dal pessimismo verso il futuro, che le stesse Borse invece rifuggono.
Criticità ambientali
Le esigenze sanitarie si scontrano dunque con le possibilità economiche, ma anche con le criticità ambientali. Un dossier diffuso da Climate Transparency a ridosso dell’emergenza Coronavirus, sostiene che non c’è un solo paese del G20 a rientrare nei parametri firmati a Parigi per contenere la temperatura globale: dipendiamo ancora troppo dai combustibili fossili e siamo indietro nel ridurre le emissioni.
Il risultato sono i cambiamenti climatici, che stravolgono le colture e minacciano la biodiversità. Tanto per fare un esempio, secondo i numeri della Confederazione agricoltori ogni anno scompaiono nel mondo quasi 2 milioni di alveari, 200mila dei quali in Italia: una strage di api, dal cui ruolo di impollinatrici dipende il 70% di ciò che portiamo a tavola.
Coldiretti è particolarmente attiva nell’implementazione di carburanti e lubrificanti agricoli biodegradabili e nel ricavo di energia da fonti rinnovabili e alternative. Come per gli aspetti medici, ci sono i prodotti buoni e cattivi: da una parte pesticidi e anidride fosforica, dall’altra allevamenti estensivi e coltivazioni idroponiche. Da questa filosofia verde parte quell’economia “circolare” che non butta via niente, il Green New Deal che recupera e riutilizza scarti, risparmia e inquina meno terra e atmosfera. Tutto è riciclabile: carta e tessuti da alghe e residui di pelle, vassoi da scatolette d’acciaio, cosmetici da bucce. Dall’alluminio si ricavano auto, occhiali e caffettiere; con le scorze d’arance è possibile alimentare una centrale a biogas, come avviene da anni in Sicilia. C’è da sbizzarrirsi a sfogliare l’inventiva riportata sull’Atlante italiano dell’economia circolare, lanciato nel 2017 da Ecodom: una piattaforma web interattiva che censisce le innovazioni più creative. L’Italia parte bene: sebbene povera di materie prime è terza in Europa nel recupero di imballaggi, dopo Germania e Spagna, con un tasso di riciclo del 67%.
In ogni caso la direzione più corretta, per i prossimi decenni, appare quella dello stop alla chimica selvaggia e invasiva e del via libera all’ecologia rigenerante della natura. Anche Greenpeace ha appena pubblicato il suo menù amico del benessere, delle tasche e del clima: cereali e legumi locali, in nome del chilometro zero, senza tentazioni esotiche come avocado, banana, ananas, quinoa e salicornia, promossi come gli alimenti del domani più dalle mode che dai dietologi.
Quale sarà, il cibo del futuro risulterà dall’incrocio delle tre variabili dipendenti: salute, reddito e ambiente. A consumatori, imprenditori e governi il compito di venirsi incontro, facendo tesoro di questa prima lezione Covid. I cittadini nel distribuire meglio le voci del loro budget di spesa; gli industriali nel sostenere l’occupazione, reinvestendo in macchinari e ricerca; e la politica nell’aiutare entrambi: riducendo le forti disuguaglianze sociali e rendendo fiscalmente vantaggiosa e burocraticamente agile una produzione sostenibile.