Se la storia della nostra Repubblica inizia con un referendum di settant’anni fa, non sarà di certo l’esito referendario di domenica 4 dicembre a mettere fine alla sua esistenza. A differenza del referendum del 1946, gli elettori italiani non sono stati chiamati a decidere sulla forma istituzionale (monarchia o repubblica), ma su qualcosa di molto meno comprensibile ai più: la possibilità di modificare l’equilibrio dei poteri tra le due Camere, e quello tra lo Stato e le Regioni al fine, dichiarato, di migliorare la governabilità del Paese. Nonostante i corsi accelerati di diritto costituzionale impartiti nelle forme più improbabili, alla vigilia del voto solo poco più di un cittadino su dieci affermava di conoscere pienamente la riforma costituzionale sottoposta al giudizio degli italiani.
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SFORZO PARTECIPATIVO ASSENTE
Non è dunque una sorpresa che il quesito referendario si sia velocemente trasformato in un voto a favore (SÌ) o contrario (NO) all’operato di governo. Del resto come evitare una tale personalizzazione quando il principale fautore della riforma, cioè il Presidente del Consiglio dei Ministri, ha minacciato di dimettersi in caso di esito negativo? Al contempo, a chi interpreta questo referendum come una sorta di verifica di metà mandato (‘mid-term review’), è opportuno ricordare che, trattandosi di un governo di nomina presidenziale, sostenuto dalla fiducia parlamentare e non da un’investitura popolare, si tratta della prima opportunità per l’elettorato italiano di esprimersi sulla sua azione. Sorprende che il governo non abbia sentito l’esigenza di colmare questa sua vera o presunta insufficienza di legittimità elettorale, accompagnando la sua ambiziosa riforma con un processo costituente o perlomeno di consultazione pubblica.
Ciò appare ancor più paradossale se si pensa che la riforma è stata proposta anche per promuovere nuove forme di democrazia rappresentativa ed inclusiva. L’assenza di tale sforzo partecipativo ha prodotto due effetti, entrambi perniciosi.
CITTADINI ESTRANIATI
Il primo è che una parte dei cittadini ha potuto sentirsi estraniata dal processo di elaborazione della riforma, la quale è stata il risultato di un compromesso politico spesso basato su negoziati fra i partiti, avvenuti a porte chiuse. Se è vero che per essere valido questo tipo di referendum costituzionale non richiede un quorum (il voto della metà più uno degli aventi diritto), l’assenza di tale requisito formale non dispensava il governo dallo svolgimento di una vasta opera di persuasione mirante a rendere partecipe un’ampia maggioranza di cittadini.
GLI ECCESSI DELLA PERSONALIZZAZIONE
Vi è poi un secondo effetto negativo. La mancanza di coinvolgimento popolare ha ulteriormente contribuito alla personalizzazione del quesito referendario, ed alimentato una campagna dove molti protagonisti agivano in cattiva fede, elaborando e diffondendo argomenti pretestuosi, motivati in realtà da interessi partitici e di casta, piuttosto che dall’esame obiettivo dei meriti della riforma. Sarebbe ovviamente ingenuo pensare che un referendum di tale peso possa essere immune da giochi di natura politica. Tuttavia, riteniamo che tali strumentalizzazioni avrebbero potute essere significativamente ridotte.
IL MODELLO IRLANDESE
A nostro parere, il caso più interessante come modello d’ispirazione per future riforme costituzionali italiane è quello irlandese. Reduce da una delle crisi economiche e politiche più gravi della sua storia, l’Irlanda istituì nel luglio 2012 una Convenzione costituzionale, con il mandato di esaminare una decina di riforme specifiche, da questioni tecniche, come per esempio la durata del mandato presidenziale, a quesiti di natura più politica, come il matrimonio tra persone dello stesso sesso o la diminuzione a diciassette anni dell’età necessaria per avere diritto al voto. Uno dei principali elementi di originalità della Convenzione irlandese è rappresentato dalla sua composizione: 66 cittadini selezionati in modo aleatorio sulla base di criteri socio-demografici, 33 deputati scelti dai partiti, e un presidente nominato dal governo in virtù della sua natura super partes.
Questo metodo ha garantito che sia i cittadini sia i responsabili politici si sentissero pienamente coinvolti nel processo di elaborazione costituzionale, e che lo promuovessero presso i loro concittadini e colleghi. Le sessioni di lavoro si sono tenute una volta al mese per dieci week-end consecutivi. Al fine di favorire la deliberazione, i membri sono stati divisi in tavoli circolari di otto, assicurando che in ciascuno sedessero due o tre politici di diversa provenienza politica. Ogni tavolo aveva un « facilitatore », al fine di assicurare un dibattito equilibrato, e un relatore che annotava le idee che emergevano nel dibattito. Le proposte di riforma sono state sviluppate seguendo un metodo volto a conciliare riflessione e deliberazione. Una squadra di politologi e giuristi ha presentato all’inizio della consultazione le questioni e gli argomenti chiave dei temi trattati, ed è rimasta a disposizione dei membri della Convenzione e dei giornalisti per rispondere alle domande.
Il lavoro della Convenzione ha prodotto decine di raccomandazioni di riforma, per alcune delle quali si è suggerito divenissero oggetto di referendum. I membri della Convenzione irlandese hanno espresso piena soddisfazione per queste procedure, e hanno voluto che vengano replicate per trattare di vari temi che non erano stati affrontati. Esse hanno anche influenzato positivamente il dibattito pubblico, avendo contribuito in modo pedagogico alla formazione dei giornalisti sui temi trattati.
In conclusione noi riteniamo che, indipendentemente dall’esito finale,
la campagna referendaria che si è appena conclusa abbia mostrato i limiti di una riforma imposta dall’alto.
L’augurio è che le prossime riforme costituzionali italiane vengano costruite con maggiore attenzione non soltanto al merito, ma anche e soprattutto al processo decisionale, che dovrà essere piu partecipato ed inclusivo.
Un referendum senza cittadini è e rimane un ossimoro.
ALBERTO ALEMANNO
Professore di diritto e politiche pubbliche, Ecole des Hautes Etudes Commerciales, Parigi e New York University School of Law
RAPHAEL KIES
Ricercatore in Scienze Politiche, Università di Lussemburgo