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Colombu: «Saranno i maker il nuovo piccolo mondo antico sardo

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Vi voglio raccontare una storia, vecchia di pù di dieci anni. La storia di quando si andava, con i miei coetanei, a lavorare nei campi. Io sono nato a Oristano e cresciuto a Terralba. Pieno Campidano quindi. Per noi tutti, d’inverno compagni di classe, era normale trasformarci in colleghi braccianti d’estate. Si andava a raccogliere pomodori, angurie e meloni. A piantare cipolle. E lo si faceva andando prima bicicletta e poi con i motorini. Imparando a guidare il trattore e conformandosi alla logica contadina e ai ritmi del sole.

Grazie al lavoro del giorno, oltreché farci vanto di un abbronzatura da manovale, ci potevamo permettere le prime uscite con le fidanzatine. Le prime cene fuori. Erano quelli i primi cenni di emancipazione.

Erano momenti di lavoro vero, anche pesante. Ma sopratutto bei momenti di formazione, oltreché di spensieratezza. Altri tempi. Quasi.

Quante ne avrò viste in quegli anni? Dall’amico che si arrangiava come poteva la bicicletta o si truccava il motorino, improvvisandosi ora saldatore, ora meccanico. Dall’agricoltore che interveniva con genio, usando conoscenza e logica, nel migliorare l’efficienza di un sistema di irrigazione o di una macchina. Se riguardo quelle esperienze con gli occhi di ora, mi rendo conto di quanto quel mondo era, ed è tuttora un mondo di Makers.

Non solo il mondo agricolo e contadino, ma anche nella pesca, nelle falegnamerie, nei vivai, nelle officine vi è un mondo di makers. Questi sono però diversi dai makers che conosciamo noi: stampante 3D, Arduino e file .STL.

A mio parere i primi sono makers 1.0. Makers analogici. Gente che si arrangia. Che trova soluzioni nel momento in cui i problemi si presentano. Che con gusto smonta e rimonta.

Ma se è vero ciò che dico, mi chiedo se esista la possibilità di creare un ponte tra i due mondi, tra i makers 1.0 e i makers 2.0. Una lingua o un codice, che permetta a questi due mondi di annusarsi, parlarsi e capirsi.

Come possiamo fare? A mio parere è necessario che nei nostri territori si cominci a discutere e investire nei FabLab. Laboratori di fabbricazione digitale intesi come strumento e veicolo per realizzare un ponte tra i saperi e il mondo 1.0 e le skills del 2.0.

Dopotutto, al MIT di Boston ci hanno già dimostrato come sia possibile aprire un piccolo Fab Lab con meno di 10 000 euro. Dopotutto qui da noi l’evoluzione verso la società dei servizi è avvenuta in maniera parziale e incompleta. Rimangono dunque forti e ben presenti le conoscenze nei territori. Humus per l’ecosistema.

In questo contesto, il nostro ecosistema di innovazione è chiamato a spargere il verbo e fecondare il territorio in modo da auto-riprodursi. Come in un ecosistema biologico, è necessario trovare nuovi adattamenti, nuovi equilibri e nuove simbiosi. Le esperienze dei Fab Lab ci hanno mostrato come siano diversi i modelli di business che li reggono e diversi i modi in cui potrebbero essere pensati o istituti.

A seconda delle vocazioni dei territori potrebbero essere pensati per le realtà produttive locali. Così come si fa al Mediterranean Fab Lab di Cava Dei Tirreni, dove si organizzano percorsi di hackeraggio dell’azienda. Perché non potrebbero essere i nostri ingegneri a svolgere questo lavoro qui nei territori. A presentare, alle nostre aziende, soluzioni innovative per aumentare l’efficienza e la qualità dei loro prodotti o del loro processo produttivo. O di entrambi.Ma non solo, anche nelle scuole e nei nostri istituti tecnici vi è tanta materia prima, quella che vale più dell’oro o di qualsiasi giacimento petrolifero. Materia grigia. La quale non aspetta altro che essere formata sulla scorta di queste nuove tecnologie.

Queste riflessioni iniziano a convincermi di come con meno 10 000 euro potremmo iniziare a contrastare l’abbandono scolastico. E magari ridurre anche il numero dei Neet, che sono tali anche e sopratutto perché l’istruzione ha fallito, perché li ha formati seguendo modelli obsoleti.

Condivido con voi questa storia e riflessione da appassionato di innovazione. Anche all’interno del progetto IM Sardegna del Formez PA, di cui faccio parte, si ragiona da tempo sull’importanza e sul ruolo dell’ecosistema e degli organismi che lo popolano.

A mio parere è necessaria la presenza sempre più forte e massiccia di evangelisti dell’innovazione. Di strarnutitori contagiosi, in grado di rapportarsi con i territori e le loro intelligenze in maniera costruttiva, con l’obiettivo di divulgare prima, contaminare poi e costruire sopratutto.

Anche un ponte tra due mondi.

Oristano, 12 luglio 2014Stefano Colombu

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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