Movimenti come il plastic free, il zero waste, la lotta alla riduzione della carta, sono tutte iniziative che ci hanno abituati a una concezione tangibile della piaga dell’inquinamento. In poche parole, siamo portati a considerare come nocivi soltanto i comportamenti che hanno sull’ambiente un impatto visibile e materiale. E se oggi ti dicessimo che la contaminazione ambientale passa – in maniera piuttosto incisiva – anche per un mondo di natura dematerializzato come il digitale, ci crederesti?
Il costo ambientale del web
Lo scambio di e-mail, le ricerche online, lo streaming, i social network, le videoconferenze, attività queste che possono sembrare innocue se si pensa che la nuvola, ovvero il cloud, che ne remotizza la fruizione sia un’entità astratta e intangibile. Lo sono all’apparenza, ma nella realtà hanno livelli di consumo energetico che causano un costo ambientale altissimo.
Il rapporto dal titolo Lean Ict – Towards Digital Sobriety – curato dall’organizzazione no profit francese The Shift Project – ha evidenziato come le energie consumate dall’ICT hanno rappresentato nell’epoca pre pandemia il 3,7% delle emissioni globali di gas serra. Se consideriamo poi l’aumento dell’utilizzo del digitale dal 2020 ad oggi, è facile intuire come questo dato sia con il tempo cresciuto e, soprattutto, destinato ad aumentare esponenzialmente nei prossimi anni. Basti pensare, ad esempio, alla capacità di una singola e-mail da 1mb di produrre 20 grammi di CO2, pari al consumo di una lampadina accesa per un giorno intero. Stima che è soggetta alla struttura stessa della mail, poiché gli allegati in esse contenuti e le loro dimensioni sono una variabile che influisce sull’aumento del peso delle emissioni.
Un altro caso cui attingere per spiegare la questione è uno studio portato avanti dalla Purdue University, la Yale University e il Massachusetts Institute of Technology. La ricerca ha stimato l’impatto ambientale di alcune attività digitali, tra cui le videoconferenze e lo streaming online, per i quali un’ora di utilizzo può portare alla produzione di livelli di CO2 che variano dai 150 ai 1000 grammi a seconda del dispositivo e della piattaforma utilizzati.
Diventa, dunque, ancora più lampante la consapevolezza che l’inquinamento digitale esiste e nasce dalla ovvia necessità di alimentare il massiccio apparato fisico che rende possibile il lavoro del cloud e la fruizione dei servizi online che ognuno di noi utilizza quotidianamente. Infatti, l’energia impiegata per il funzionamento delle infrastrutture e delle reti che sottostanno al web implica l’emissione di anidride carbonica e gas nocivi. Dunque, considerando – su scala mondiale – la frequenza e l’intensità tipiche delle abitudini mediali di ogni individuo, ne consegue un dispendio energetico tale da rendere l’Internet una vera e propria miniera di inquinamento ambientale.
Se pensavamo che inviare una e-mail, condividere un post sui social o navigare sul nostro sito di news preferito fossero semplici azioni di routine, oggi sappiamo che dietro c’è molto di più. Ciononostante, demonizzare anche l’utilizzo del web è sbagliato: se possiamo sostituire la plastica con materiali biodegradabili o a impatto zero, possiamo anche ridurre le emissioni di CO2 provenienti dal digitale, sebbene sia una partita che va giocata esclusivamente nel campo dei provider che erogano i servizi IT e sull’organizzazione di data center green.
Un green provider per ridurre l’impatto ecologico del digitale
Bisogna agire a monte del sistema di produzione che alimenta il contesto digitale: non può esserci processo di riduzione dell’impatto ambientale senza l’ottimizzazione energetica dei data center da cui originano i servizi dei provider. Siti web, e-commerce, piattaforme di vario genere, sono tutti progetti in hosting su server che per assicurare le massime performance consumano ingenti quantità di energia elettrica. E quando noi, a nostra volta, utilizziamo questi servizi, stiamo inconsapevolmente contribuendo a un consumo di risorse che, se non accuratamente gestito dal provider, può danneggiare il pianeta.
Allora cosa possono fare i fornitori IT per minimizzare il peso delle conseguenze ecologiche? Ripensare le logiche operative e optare per un approccio etico e sostenibile che contempli il raggiungimento di livelli di efficienza energetica attraverso scelte più green. In cima alla lista di un’organizzazione produttiva realmente eco-friendly vi è la scelta delle fonti da cui le server farm attingono energia: abbandonare i dannosi combustibili fossili a favore di fonti rinnovabili è il passo più significativo, accompagnato poi dall’adeguamento sostenibile di ogni substrato aziendale.
Progettare una server farm sostenibile: l’esempio di Seeweb
Un provider impegnato nella ricerca di pratiche orientate alla sostenibilità sa che l’unico contributo davvero valido per rendere il web più ecologico è lavorare per mezzo di data center green. Seeweb, cloud provider italiano, è una delle realtà che nel nostro Paese ha messo in pratica i principi della responsabilità sociale d’impresa, adottandoli come modello aziendale che guida le scelte produttive.
Come? Attraverso il ricorso esclusivo a fonti di energia elettrica rinnovabili, le quali hanno permesso alle server farm dell’azienda di raggiungere livelli di efficienza energetica pari a 1,2 di PUE. Quest’ultimo è un metro di misura i cui valori, nel caso di Seeweb, indicano che l’intero quantitativo di energia attinto viene totalmente assorbito dagli impianti e poi utilizzato al solo fine di produrre i servizi IT: in sostanza, senza sprechi di risorse e al riparo dalle emissioni nocive.
Dunque, così come molti fornitori di servizi IT dimostrano di aver compreso, le sorti di un web più green sono nelle loro mani e negli investimenti che effettuano per rendere i propri data center rispettosi dell’ecosistema in cui operano.