Rimprovero all’Università italiana di non avermi mai obbligato di seguire almeno un corso di economia. Forse un’infarinatura delle nozioni basilari mi aiuterebbe a capire le reazioni del mercato mondiale alla precipitosa discesa del prezzo del petrolio.
Nella mia visione semplificata e naif del commercio globale, mi aspetterei che i paesi che il petrolio lo acquistano siano felici della discesa del prezzo di un bene di prima necessità, cosa che migliora la loro bilancia dei pagamenti e li rende sicuramente più competitivi. Tuttavia, il vantaggio competitivo svanisce se i paesi produttori, in sofferenza, hanno meno capitale da investire e comperano di meno. Il risultato è sbalorditivo.
Le borse crollano quando il prezzo del barile di greggio scende sotto i 30 dollari e tirano un sospiro di sollievo quando il pezzo del petrolio sale sopra questa soglia.
Il petrolio low cost spinge il mercato delle auto e fa tornare in positivo i bilanci delle compagnie aeree (che non offrono sconti per il minor prezzo del carburante, mentre si affrettavano ad introdurre il fuel surcharge quando il prezzo del greggio saliva). Per contro, mette in crisi tutta l’attività nata intorno all’estrazione dalle sabbie bitumnose e dal fracking che produce petrolio ad un prezzo superiore di quello del mercato attuale, e quindi non competitivo. Per i critici di questi metodi di estrazione, ritenuti inquinanti, la notizia può non essere negativa, ma, anche qui, le implicazioni sono pesanti: intere regioni che erano risorte grazie al fracking devono fare i conti con una nuova crisi.
Situazione analoga si registra sul fronte opposto, quello dell’industria virtuosa per eccellenza che gestisce la raccolta differenziata dei rifiuti e del loro riciclo.
Abbiamo passato anni ad abituarci a separare la spazzatura, convinti di fare uno sforzo in favore dell’ambiente.
Limitare lo smaltimento in discarica è meritorio da molti punti di vista, primo fra tutti la scarsità delle discariche disponibili. Tuttavia, raccolta differenziata e riciclo sono processi che hanno un costo, e, per attirare interesse industriale e capitali, devono essere redditizi.
Raccogliere e riciclare la plastica, per esempio, era un’attività interessante fino allo scorso anno e le industrie coinvolte potevano contare su bilanci in attivo.
Guadagnare mentre si svolge un compito “meritorio” per l’ambiente sembrava il mantra alla base delle scelte per un futuro sostenibile.
Poi, il petrolio low cost ha fatto abbassare le quotazioni della plastica nuova, facendo crollare i prezzi di quella riciclata.
Se il ricavato della vendita del materiale riciclato non arriva a coprire le spese che si fa? La scelta è tra smettere di fare la raccolta differenziata o aumentare le tasse sui rifiuti.
Mentre da noi i costi sempre alti dello smaltimento in discarica giocano a favore della raccolta differenziata, negli Stati Uniti diverse città hanno deciso di tornare a usare le discariche. Non tutti condividono l’imperativo morale del sindaco di New York che ha deciso che entro il 2030 tutto deve essere riciclato. Non tutti sono d’accordo con questa filosofia. Molti sono convinti che solo una frazione di circa il 30% della spazzatura sia ragionevolmente riciclabile, il resto è uno spreco di denaro che può essere investito meglio in altri settori.
Per esempio, per investire sulle energie alternative che non sono mai state veramente competitive rispetto al petrolio o al gas naturale. La vera spinta è sempre stata politica, sull’onda della preoccupazione generata dal cambiamento climatico. La ricetta, adottata più o meno da tutti gli stati, è semplice: per limitare i gas serra introdotti nell’atmosfera bisogna diminuire l’uso dei combustibili fossili sostenendo, con incentivi statali, le energie rinnovabili.
Benché i pannelli solari stiano diventando meno costosi e più efficienti, la discesa del prezzo del petrolio, unito alla diminuzione degli incentivi, non gioca a favore dell’industria green.
Eppure è solo incentivando le energie rinnovabili ed il riciclo dei rifiuti che possiamo cercare di tenere fede alle promesse di abbattere i gas serra fatte alla conferenza di Parigi al fine di contenere l’aumento di temperatura entro 2 gradi, con l’auspicio di non oltrepassare la soglia di 1,5. Per arrivare a questo risultato, condiviso da rappresentanti di 196 nazioni, è necessario diminuire le emissioni di gas serra, primo fra tutti l’anidride carbonica prodotta dall’utilizzo di combustibili fossili. L’accordo di Parigi è ambizioso e prevede di arrivare ad una situazione di emissione zero entro la seconda metà del secolo (Leggi anche “Non basta una conferenza per battere l’inquinamento, ci vuole l’impegno dei cittadini“). Emissione zero significa investire sulle energie alternative, sviluppare metodi per assorbire i gas serra prodotti dall’uso dei combustibili fossili, potenziare la sensibilità mondiale alla filosofia del riciclo.
Si tratta di ottimi propositi, fino a qui basati sulla buona volontà dei sottoscrittori, che andranno ratificati con accordi vincolanti nel corso del 2016, quando si stabiliranno quote delle emissioni permesse e i contributi da pagare. È tutto l’enorme comparto legato alla produzione di energia a livello mondiale che va ripensato con un occhio alle emissioni e un altro ai costi, senza dimenticare che gli stati devono mantenere fede agli impegni presi con appositi interventi legislativi.
Mentre il petrolio low cost rende tutti gli sforzi di protezione dell’ambiente drammaticamente antieconomici, la corte suprema americana ci mette del suo sospendendo il “clean anergy plan” del presidente Obama che voleva imporre regole stringenti alle centrali a carbone, decisamente le più inquinanti. La riduzione delle emissioni USA è un tassello fondamentale nella costruzione dell’accordi di Parigi e questa decisione potrebbe avere ripercussioni molto negative sulle negoziazioni vincolanti che devono ancora essere fatte.
Solo se USA e Cina rispetteranno gli impegni presi sarà possibile iniziare il lungo percorso della lotta al cambiamento climatico.
Impegni sono sinonimo di spese e nessuno è felice di pagare oggi più tasse per contribuire ad un mondo migliore tra 30 o 50 anni.
Per il bene del pianeta, non resta che sperare che il petrolio riprenda a salire.
Solo così il riciclo tornerà economicamente vantaggioso e le energie alternative riprenderanno quota.