Facciamo un esperimento mentale.
Escherichia coli è un batterio molto comune nei laboratori di microbiologia: lo si usa per via della sua facile reperibilità, della vasta conoscenza che si possiede su di lui, della facilità con cui lo si riesce a manipolare e della velocità con cui si riproduce: ogni cellula batterica si divide, generando due copie identiche, ogni venti-trenta minuti.
Immaginiamo di partire con una bottiglia da un litro di “brodo nutritivo” per E.coli e di disperdervi un millilitro di batteri. Se le condizioni di crescita sono ottimali dopo venti minuti i batteri avranno consumato un po’ di “brodo”, saranno aumentati di dimensione e si saranno duplicati, occupando due millilitri. Otto millilitri in capo ad un’ora. Mezzo litro dopo tre ore.
L’intera bottiglia dopo tre ore e venti minuti. Dopodiché non disporranno più di nutrienti con cui sostentarsi: alcuni moriranno di fame ed altri a causa dalle tossine che i primi rilasceranno al momento della morte.
Ora, poniamo che il ricercatore a tre ore si accorga delle condizioni critiche verso cui la sua coltura batterica verte. Mettiamo che abbia la fortuna di avere una seconda bottiglia di brodo, messa da parte. Ridistribuisce il contenuto delle due bottiglie — ciascuna conterrà un quarto di litro di batteri e tre quarti di liquido nutritivo. Di quanto ha posticipato la morte della sua popolazione di E.coli? Solo venti minuti.
Questo è un esempio disponibile in varie forme in rete: viene usato come allegoria della dinamica della popolazione umana nel XXI secolo.
Nonostante pecchi un po’ di faciloneria, il concetto è semplice: le popolazioni non crescono in modo lineare.
Le proiezioni più aggiornate prevedono nel ventennio 2010-2030 un aumento della popolazione mondiale del 20% per un totale di quasi otto miliardi e mezzo di individui. In queste proiezioni i Paesi in via di sviluppo e del terzo mondo sarebbero le forze trainanti di questa crescita, così come i primi a pagarne le conseguenze. Le teorie più ottimistiche prevedono un declino del tasso di crescita in queste regioni, che si ritiene “usciranno” dal “Sud del mondo” dopo il 2050. Il problema rimane quello della sostenibilità (economica, ecologica e per quanto riguarda le risorse) di questa crescita della popolazione. La mancanza di lungimiranza può solo che portare ad una catastrofe che non sarà più evitabile, ma solo posticipabile di un paio di generazioni.
La vita nelle megalopoli del domani
Due sono le principali problematiche: la disponibilità di risorse e l’urbanizzazione. Nell’esempio di prima, potremmo farle corrispondere alla quantità di brodo ed al numero di bottiglie. Sempre stando alle proiezioni, entro due decenni l’80% della popolazione terrestre abiterà in megalopoli, con le conseguenti problematiche legate alla gestione di grosse aree urbane, densamente popolate: sanità, criminalità, inquinamento, dispendio energetico, gestione dei rifiuti.
Per il campo dell’architettura non sarebbero problemi nuovi: è stata anzi la prima disciplina a mobilitarsi verso un’integrazione uomo-ambiente mirata ad attutire l’impatto che il primo ha sul secondo, migliorando la vivibilità e la qualità della vita. Ma il trend che si osserva non è dei più promettenti: nonostante un’enfasi sempre più grande verso l’ecosostenibilità nell’edilizia, le città continuano ad accrescersi perifericamente e solo di rado la decentralizzazione ne attutisce l’impatto.
Secondo architetti come Rachel Armstrong, Mitchell Joachim e David Benjamin, l’unica soluzione è un totale cambiamento nel paradigma dell’architettura. Serve un approccio olistico che garantisca il contributo di altre aree disciplinari, di altre competenze d’avanguardia. Serve un diverso modo di concepire l’edificio.
Gli edifici vengono generalmente progettati per rispondere in maniera standard alle condizioni e agli stimoli ambientali: non possono risolvere in maniera definitiva i problemi legati alla gestione degli spazi cittadini, all’impatto ambientale dell’urbanizzazione e al fronteggiamento di catastrofi atipiche (come il terremoto-tsunami del Seitai nel 2006) che avranno un peso sempre maggiore in contesti metropolitani a densità di popolazione sempre più alte. Per quanto tecnologicamente avanzata, quest’architettura non avrà mai la versatilità per tutelare appieno le necessità dei suoi fruitori, gli abitanti del futuro.
La biologia sintetica per “dare vita” alle abitazioni
Una potenziale soluzione sarebbe quella di dare vita alle abitazioni. In un’ipotetica megalopoli della seconda metà del XXI secolo, gli edifici potrebbero essere entità biologiche in grado di crescere, ripararsi autonomamente, riutilizzare in modo ottimale i propri prodotti di scarto e reagire in maniera circostanziale al cambiamento dei fattori ambientali come intensità di illuminazione, forza del vento, temperatura, umidità, e via discorrendo. Da entità meccaniche ad organismi viventi, o simil-viventi: questo è nuovo paradigma verso il quale alcuni studi si stanno avventurando, un passo alla volta.
Un elemento fondamentale per arrivarci, assieme alle scienze di design ed alla chimica dei materiali, non può che essere la biologia sintetica, ovvero la disciplina nata nell’ultimo decennio come reciproca contaminazione tra biotecnologie ed ingegneria: organismi (per di più batteri) presenti in natura vengono manipolati geneticamente per conferire loro nuove proprietà (solitamente, pensando all’uomo come beneficiario di queste). Oppure delle entità simil-viventi, definite protocellule, vengono costruite ad hoc per funzionare come nanomacchine programmabili dotate di un grado variabile di autonomia.
Le capacità acquisite possono andare dal moto guidato da segnali chimici o luminosi alla biosintesi di materiali, fino all’eliminazione di inquinanti ambientali. Il contributo delle scienze biologiche all’architettura può consistere nel semplice fornire “strumenti” per ridurre l’impatto ambientale delle attività abitative o di produzione umane, nella realizzazione degli edifici viventi di cui sopra, passando per il fungere da interfaccia ambiente-edificio in cui biologia, cibernetica ed edilizia formano un consorzio finalizzato al soddisfare tutti i bisogni di cui sopra.
Versatilità e sostenibilità con le biotecnologie
Le prime fasi di questo nuovo paradigma — ancora allo stadio embrionale — sono già state messe in atto. È il caso di iGEM (International Genetically Engineered Machine), un concorso internazionale di biologia sintetica rivolto a studenti universitari e promosso dal MIT di Boston. I partecipanti vengono invitati a sviluppare soluzioni biologiche a problemi attuali, con un occhio di riguardo alla multidisciplinarità e all’ingerenza di altre forme del sapere. Una vera e propria fucina per la realizzazione di tecnologie innovative e che trovano applicazioni in qualsiasi contesto, non da ultime l’architettura della città e del paesaggio.
Abbiamo così Bacillafilla, cellule del batterio Bacillus subtilis in grado di riparare fratture nel cemento, fissando l’anidride carbonica dell’atmosfera in una matrice di carbonato di calcio, collante batterico e cellule, ripristinando la continuità strutturale della costruzione. Crust Away è un progetto in cui E. coli (il batterio di prima, vi ricordate?) è stato riprogrammato per ripulire le superfici in marmo da quella patina nerastra causata dell’accoppiamento di piogge acide ed inquinamento da polveri sottili. Il tutto in un modo controllabile e totalmente inoffensivo per il marmo —al contrario di molte tecniche fisiche e chimiche attualmente disponibili. I progetti realizzati ad iGEM includono anche modi alternativi di produrre energia e luce, riciclare materiali di scarto, monitorare parametri ambientali: tutte soluzioni potenzialmente implementabili in una fase primordiale di edificio che, seppur ancora un’entita meccanistica, inizi ad evolvere verso la vita.
Un passo oltre la natura quasi-amatoriale di iGEM è stato mosso da alcuni team, soprattutto oltreoceano. È il caso di Hylozoic Ground, esposizione al padiglione canadese per la Biennale del 2010 messo a punto dall’architetto e scultore Philip Beesley ed il suo team. Consisteva in un sistema di attuatori robotici controllati da una rete neurale e da un sistema di sensori (biologici e non) per il tocco ed altri parametri. Integrando l’insieme di informazioni ambientali così raccolte, era in grado di muovere protesi in acrilico e dare alla struttura l’aspetto di una foresta di vetro che respirava e reagiva alla presenza di chi vi passava attraverso. Più vicino all’arte visiva (e, per certi versi, concettuale) che all’architettura, il progetto riesce ad offrire una panoramica di come sistemi biologici e meccanici possano essere impiegati per fornire responsività a del materiale inerte.
È facile immaginare un futuro in cui un sistema di organismi ingengerizzati o protocellule agisca con altre piattaforme per creare soluzioni pratiche, versatili e contestuali a problemi inerenti l’abitabilità e l’impatto ambientale delle città.
Più vicini alle esigenze abitative della popolazione sono invece i progetti teorizzati da Rachel Armstrong e Mitchell Joachim. La prima propone di affrontare il problema dell’integrità delle fondamenta di Venezia, minacciate dalla proliferazione di organismi endemici nella laguna. Protocellule programmate per sopravvivere in un ambiente marino dove, spostandosi lontano dalla luce, entreranno in contatto con le fondamenta lignee della città: potranno sintetizzare in loco una matrice calcarea che finirà col “pietrificarle”. Il risultato sarà miglior integrità strutturale e maggiore resistenza, senza minacciare la biodiversità delle specie residenti, che troveranno un’ambiente favorevole al loro sostentamento all’interno di queste neoformate strutture di carbonato di calcio.
Joachim, di formazione bostoniana e fondatore dello studio TerreformOne, propone il Fab Tree Hab: abitazioni de facto vive, prefabbricate utilizzando supporti riutilizzabili attorno i quali crescere piante opportunamente modellate tramite la tecnica dell’innesto. L’idea riprende quella dei ponti sospesi di Cherrapunji, fatti guidando gli accrescimenti aerei della pianta Ficus elastica in un’unica struttura fibrosa in grado di sostenere il peso di diverse persone. Seppur nella pagina ufficiale di Fab Tree Hab le biotecnologie siano menzionate solo una volta, l’apporto che queste possono fornire al progetto è tanto variabile quanto l’inventiva. Sarebbero ad esempio implementabili delle strategie di controllo della crescita, per fermare lo sviluppo dell’abitazione o farlo riprendere quando una nuova stanza sia necessaria. Contemporaneamente, l’edificio stesso potrebbe essere in grado di sanificare il suolo dai metalli pesanti (una tecnica attualmente utilizzata e che prende il nome di fitorisanamento), modulare le condizioni di illuminazione, aerazione e scambi termici in funzione dei parametri ambientali.
Render delle fab tree hab
Le tecnologie emergenti portano verso un connubio di sistemi di diversa origine — chimica, biologica, computazionale, robotica — forse in grado di fornire alle abitazioni, e magari per estensione alle città stesse, le proprietà in cui sono attualmente poco ottimali, in primis versatilità e sostenibilità. Un’ipotetica megalopoli potrebbe, tra cinque-dieci decenni, essere in grado di fronteggiare le calamità subendo solo limitati danni strutturali (ad esempio, immagazzinando l’acqua in eccesso in strati di protocellule e materiali spugnosi in grado di gonfiarsi assorbendola all’occorrenza, innalzando i manti stradali e prevenendo così allagamenti), ri-edificare se stessa tramite la modellazione di edifici e quartieri in nuove forme più funzionali, degradare i propri prodotti di scarto ed ottenerne nuovi materiali edili e produrre in loco tutte le risorse di cui ha bisogno, dall’energia all’acqua potabile. E perché no, anche al cibo coltivato in fattorie verticali.
L’attuabilità di quanto finora descritto è ancora problematica. Anzitutto le limitazioni tecniche ed economiche rendono ad oggi queste tecnologie poco disponibili allo scaling-up: rimangono per ora limitate agli ambienti contenuti dei laboratori.
Ma sessant’anni fa i computer pesavano alcune tonnellate ed occupavano stanze intere. Forse, l’ostacolo più difficile da sormontare è quello di forma mentis, con tutte le sue implicazioni etico-giuridiche: la paura innata verso la tecnologia, che da sempre ci caratterizza — se non come individui, almeno come collettività — pone un grosso limite al progresso, e forse non del tutto ingiustificato. Il confronto con l’opinione pubblica è fondamentale per una revisione critica delle tecnologie in via di sviluppo. Se da un lato i rischi immediati vengono di solito accertati e risolti, dall’altro le conseguenze indirette possono essere meno immediate e riconoscibili, e potenzialmente deleterie.
Hylozoicground.com/Venice
Quanto l’accessibilità alle tecnologie ha cambiato il nostro modo di vivere e pensare il mondo? Come ha influenzato la società, sia in termini collettivi che di soggettive relazioni interpersonali? Che nuovi problemi sono nati dal cattivo utilizzo — colposo o meno — delle nuove tecnologie? Affinché la realizzazione di questi progetti, ad ora utopici, sia eticamente accettabile, porsi queste domande è indispensabile. Non bisogna però dimenticare che le tecnologie nascono per curiosità e si sviluppano per necessità, e trovare un compromesso accettabile e ora più che mai fondamentale.
L’obiettivo è ancora lontano, ma non fuori portata: questo è il momento della mobilitazione. Siamo già in ritardo, a corto di bottiglie e a corto di brodo.
JASON FONTANA