Cosa fa un information designer? Cambia il mondo, goccia dopo goccia

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I cambiamenti non avvengono in un giorno. Sono un processo lento fatto di migliaia di singole azioni, di energie, menti, anime. Connetterle può essere a volte di vitale importanza per trasformare un potenziale in realtà. Mi auguro di riuscire in questa impresa. Questo rispondevo la mattina del 12 Febbraio, dopo aver ricevuto una lunga email che mi comunicava la nomina di Young Global Leader 2012.

Ero sorpresa ed incredula, e riuscivo solo a pensare ‘Perché io?’.

Percorrere a ritroso i miei ultimi 12 anni non mi ha aiutato a trovare una risposta chiara ma a capire meglio il potenziale di quello che possiamo innescare con energia, passione, entusiasmo. Non ho mai creduto troppo nei titoli e nelle nomine da appendere al muro perché possono valere duro lavoro, ma anche mediocrità e menzogna.

Credo però moltissimo nelle azioni, nella dedizione, nel rispetto, nello scambio di idee, nella collaborazione, perché è lì che gettiamo le basi del cambiamento, veloce o lento che sia.

Nel 2000 mi laureavo in ingegneria, scoprivo di non voler fare l’ingegnere da grande e decidevo di iscrivermi ad un master in Disegno Industriale. E di fronte ai commenti di chi obiettava che gettare via una laurea in Ingegneria era stupido ed oltraggioso, io rispondevo che rinunciare ad una passione in nome di un titolo, comunque non mi avrebbe portato molto lontano. Le storie che viviamo non sono pezzi di carta, non possono finire in un cestino, cambiamo la trama dei nostri pensieri, del nostro modo di interpretare il mondo e rapportarci ad esso.

Nulla è perso. E’ la logica della consuetudine che tarpa le ali dell’innovazione.

Rompere la consuetudine rende spesso vulnerabili, ma la vulnerabilità è la culla dell’innovazione, del cambiamento, della creatività.

Nel 2006, quella vulnerabilità mi ha portato a Londra per frequentare un master biennale in Communication Design alla Central St Martins con l’obiettivo di specializzarmi in Information Design. Percorso difficile, livello di preparazione richiesto altissimo, ma un capitolo meraviglioso e necessario per acquisire gli strumenti che mi avrebbero permesso di diventare un Information Designer, di scoprire che la matematica era un’alleata e l’ingegneria una solida base su cui poggiare lo studio e la comunicazione di dati complessi.

Richard Saul Wurman – fondatore di TED che per primo, trent’anni fa, usò l’espressione information architecture – definisce Information Design come la progettazione della comprensione.

Secondo Nathan Shedroff, pioniere dell’Experience Design, la comprensione dovrebbe essere intesa come un processo di trasformazione dei dati in saggezza. E’ una definizione astratta che diventa chiara non appena si percorrono tutte le tappe di questo continuum.

I dati, materiale grezzo da cui partiamo per costruire ogni forma di comunicazione, sono il risultato di un processo di scoperta, ricerca e studio ed acquistano un valore informativo se vengono organizzati e presentati al fine di comunicare un messaggio preciso al nostro target audience. Definire quel messaggio richiede una profonda analisi e conoscenza dei contenuti.

All’inizio è come camminare in un labirinto senza avere una idea chiara sulla trama che stiamo esplorando ma, nel momento in cui si comincia a lavorare sui dati e ci si addentra nella ricerca, è come se qualcuno ci trascinasse verso l’alto permettendoci di vedere la struttura del labirinto, di capire le connessioni necessarie ad individuare l’uscita. E’ allora che identifichiamo il messaggio che vale la pena comunicare, è allora che possiamo sperimentare diversi modi di organizzare i dati al fine di comunicare quel messaggio.

I dati, organizzati al fine di presentare quel messaggio, sono informazione.

Essa diventa conoscenza nella mente di chi la riceve quando è vissuta attraverso esperienze e storie, animate da una narrativa e da dettagli. Le storie sono ciò che rende l’informazione memorabile. La conoscenza diventa saggezza quando si interiorizza l’informazione a tal punto che possiamo scoprire significati e strutture che nessuno ci ha insegnato, mediante un percorso di introspezione e riflessione.

Progettare questo continuum non è cosa semplice, richiede passione e dialogo. Non è un esercizio di pura forma, ma di organizzazione del contenuto, e quando questo contenuto si chiama ‘acqua virtuale’ la faccenda diventa alquanto complessa!

Un progetto di un anno completato come tesi di master è diventato una sorta di missione, convinta che quello che io avevo scoperto dovesse entrare nella vita di tutti. Il continuo dialogo con gli scienziati del Water Footprint Network e con il professor Tony Allan (guardate questo video per conoscerlo) mi ha reso consapevole del ruolo potente che un designer può avere nella comunicazione di ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto in report scientifici. Quando le soluzioni sono nella vita quotidiana di ogni singolo individuo è bene comunicare la scienza, perché la comprensione precede l’azione ed il cambiamento. Ascoltare chi i dati li produce è di vitale importanza per ogni singola scelta di design, anche la più piccola. E’ un lavoro di dedizione e pazienza nella ricerca del giusto equilibrio tra immagini e parole.

Ho navigato nel mio labirinto per circa cinque mesi, nei quali ho cercato di capire la crisi dell’acqua, la necessità di proteggerla e i modi in cui la usiamo.

Al termine di questo lungo percorso ho scoperto una cosa incredibile. Era Ottobre 2007, studiavo il World Water Development Report pubblicato dalle Nazioni Unite, e a pagina 392 leggevo:

Il commercio internazionale di prodotti significa vasti flussi di acqua virtuale che si spostano su distanze immense, dove l’acqua virtuale si intende come il volume di acqua necessario a produrre quei prodotti.

Mi ritrovai in un territorio dove si tentava di quantificare l’acqua, ma quella invisibile, quella usata per realizzare tutto ciò che mangiamo, compriamo, vendiamo, indossiamo, ogni giorno. Di lì a poco avrei capito che quella quantità è astronomica. Nel 2007, quando il Water Footprint Network muoveva i suoi primi passi, di questi dati si sapeva poco o nulla. Il messaggio era chiaro e le mappe finali dovevano comunicarlo con chiarezza: il 92% per cento dell’acqua che usiamo è nascosto nel cibo che produciamo, mangiamo e…sprechiamo.

Individuare il giusto modo di organizzare i dati mi ha aiutato a tradurli in informazione, uscendo dal mio labirinto. L’impresa di creare un libro che contenesse tutto quello che avevo studiato sin dall’inizio della mia ricerca è stata una impresa che il professor Tony Allan definì ‘folle’, ma che mi è servita a capire fin dove ci riusciamo a spingere quando siamo animati da passione ed amore per il contenuto.

Ho imparato che la bellezza, se conseguenza della chiarezza, può generare stupore ed interesse. Ho imparato che la verità non è mai intrappolata in una sola immagine, ma è il risultato di modi diversi di comunicare lo stesso messaggio. La verità è piena di sfumature che non possono essere catturate in una sola prospettiva.

Ho imparato che i numeri possono essere macigni pesanti carichi di incertezza, e, da designer, abbiamo la responsabilità morale di comunicarla.

Alla domanda ‘perché io’ non ho ancora trovato una risposta precisa. Non conosco tutte le ragioni di quella nomina, ma sento la responsabilità e l’opportunità di continuare a percorrere, con la stessa passione, la strada che sto percorrendo. Sento forte il ruolo sociale della mia professione e sento di dover condividere quello che ho imparato, perché la condivisione può essere il motore di nuove storie vicine o lontane, combattute per cause nobili.

Angela Morelli

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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