Cosa manca alla PA per portare la rivoluzione digitale sul cloud

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Sono tempi duri per la Pubblica amministrazione, e bisogna fare attentamente i conti. E allora facciamoli, visto che la cinghia, ormai piena di buchi, è già stretta all’inverosimile. Proviamo, all’alba dell’agenda digitale, a parlare di innovazione pubblica e di futuro attraverso due domande consequenziali per quanto prosaiche. Quanto “tira” oggi l’IT nella Pubblica amministrazione e, dunque, ci sono i numeri, c’è trippa per gatti per risparmiare in maniera sensibile? E poi, come può l’innovazione nella PA essere effettivo motore etico di spending review? In sintesi, quanti e quali sono gli spazi per intervenire?

La risposta corretta alla prima domanda, “Quanto?”, sarebbe probabilmente “non si sa”, i dati sono frammentati e incerti. Assinform, in un report di fine 2011, parla di oltre 5,5 miliardi, poco più di un terzo di punto di PIL.

In realtà, l’importo è, verosimilmente, sottostimato ma, come ordine di grandezza, la trippa comunque c’è, e questa è già una risposta. Sulla seconda domanda, “Come?” proviamo a discuterne adesso partendo dal tema cloud proprio mentre il decreto Digitalia dovrebbe essere varato. Su questo, lo scorso 30 giugno, si è concluso un processo di consultazione pubblica che ha prodotto delle raccomandazioni da leggere assolutamente per un inquadramento complessivo.

In effetti, nell’era leggerissima del cloud, le nostre PA sono soffocate da pesantissimi client zeppi, infarciti di dati e applicazioni di ogni tipo. Sentiamo spesso parlare di cloud come un qualcosa di futuristico, tutto da attuare, di là da venire: “Valuteremo, programmeremo… Faremo!”. Questo mentre la nostra vita, come tutti sappiamo, viaggia già oggi, continuamente sul filo dei cloud, anzi ne è del tutto pervasa, allagata, integrata.

Sono cloud Google, G-Mail, le applicazioni di servizio del nostro telefonino, Open street map, Youtube, Instagram, Twitter.

Tutto risaputo. Tuttavia, in buona parte della nostra PA, la webmail è ancora un fenomeno pressoché sconosciuto. La posta è scaricata sul client ad ingrassarne il disco fisso assieme a grovigli di documenti, tabelle excel intelligibili solo a qualche setta di pochi iniziati, e poi applicazioni stravecchie sulle cui licenze e stato di aggiornamento è probabilmente lecito esprimere qualche dubbio. Tra le conseguenze, per dirne soltanto una, l’impossibilità di gestire il proprio lavoro se non stando seduti, murati, imbullonati alla propria scrivania. Quindi una PA generalmente chiusa, immobile, rigida. E costosa.

Cerchiamo di capire perché accade tutto questo. C’è una questione tecnologica legata alle infrastrutture.

Senza fibra non si cammina e ogni cosa è destinata a rimanere inchiodata dov’è. Sono cose note e attendiamo l’azione del Governo. Torniamo tuttavia alla filosofia. La logica del cloud, per dirla in estrema sintesi, vede un mondo dei dati e delle applicazioni che esiste di per sé, la nuvola creata e tenuta in vita, a seconda dei casi, dall’attore privato o da quello pubblico. C’è poi un ”universo dei profili”. Ciascuno di noi ha le proprie impronte in quel mondo, i propri dati e le proprie applicazioni. Sono profili flessibili che ci seguono nelle nostre esigenze personali e lavorative. l link tra questi due mondi è dato dai dispositivi. Un telefonino, un tablet, un PC, quello che ci pare, possono mettere in relazione l’impronta con i dati e le applicazioni, esattamente dove, come e quando ne ho bisogno.

Il sistema pubblico, proprio in quanto tale, dovrebbe intrinsecamente essere fatto in questo modo. Perché “pubblico”, dovrebbe, più di altri, vivere indipendentemente dal PC, dalla scrivania di questo o quel funzionario ed essere open, intrinsecamente libero, immediatamente accessibile secondo il profilo di ciascuno, sia esso un cittadino, un impiegato al lavoro, un giornalista o qualsiasi altra cosa. Parrebbe un ragionamento semplice in teoria, estremamente complesso da realizzare, ma comunque fattibile. Lo stesso documento di DigitPA sottolinea in maniera estremamente chiara questo aspetto. Invece siamo lontani, anzi lontanissimi.

Le ragioni sono molteplici. Mettiamo da parte le (pur fondamentali) questioni culturali e diciamo la principale: i soldi. Da una parte ci sono gli enti. Molti dei costi IT della PA sono tanto elevati quanto dilazionati, non esplicitati o non percepiti. Server che, magari, hanno superato da anni il loro naturale ammortamento e che però continuano a funzionare, applicazioni stagionate ma più o meno operative e poi il personale che sempre e comunque, alla fine del mese, deve essere pagato. Dall’altra ci sono i fornitori che propongono, nella grande maggioranza dei casi, infrastrutture (IaaS) o piattaforme (PaaS) come servizio. Piattaforme (con le loro API) e infrastrutture pressoché vuote che spesso, per essere utilizzate, magari come desktop virtuale, hanno pure bisogno della licenza di Windows.

È sufficiente questo, ci chiediamo, a far scoccare la scintilla dell’innovazione? Perché mai il CIO di un qualsiasi comune dovrebbe perdere il controllo diretto sui propri server per esternalizzarli as a service? Perché lasciare la “coperta di Linus” delle macchine sotto casa (a fronte di una domanda relativamente piatta) in cambio di qualcosa che, in fin dei conti, ha già? Succede così che, per il servizio, debba fatalmente pagare attingendo, come recentemente ricordato da più parti, ai preziosi capitoli della spesa corrente, già praticamente azzerati dai tagli dalla spending review e poi comunque bloccati dal micidiale patto di stabilità. La rocciosa trincea dell’insourcing appare senz’altro più sicura e, spesso e comunque, l’unica praticabile.

Diverso sarebbe le la parte pubblica, proponesse alla giusta scala (nazionale, regionale, di area metropolitana), all’interno di un bel sistema di community (o anche hybrid) cloud, un bouquet diffuso ed efficiente di servizi open virtualizzati, cui attingere secondo le proprie necessità, e a prezzi sostenibili, con un semplice browser. Posta elettronica, gestione dei flussi documentali, elaborazione testi, fogli di calcolo, sarebbero accessibili attraverso zero clients acquistabili a meno di cento euro e con una lunga aspettativa di vita senza manutenzione. La imponente schiera dei desktop “base” potrebbe essere virtualizzata pressoché immediatamente. Così, e poi via via per tutti gli altri casi, parole come open source, riuso, open data, e-gov troverebbero finalmente un vero banco di prova e verrebbero ancor più a stanarci, uno per uno, per vedere di che pasta siamo fatti.

Con una sorta di global service adeguatamente incentivato tutto, insomma, cambierebbe. L’investimento sarebbe ripagato in pochi anni in termini economici. Ma, valutando gli aspetti etici e di recupero complessivo di efficienza della macchina pubblica, sarebbe la rivoluzione. Davvero.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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