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Cosa penserebbe Pasolini di Facebook, dove tutti credono di avere ragione

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«Che qualche cosa stesse succedendo nella lingua italiana negli anni del grande sviluppo economico del Dopoguerra, fu avvertito assai bene da uno scrittore sensibile come Pasolini, a cui si deve l’ultimo clamoroso intervento nella ‘questione della lingua’».

Così inizia il capitolo di un celebre manuale di storia della lingua italiana, di Claudio Marazzini, che dedica uno spazio apposito all’emergere del cosiddetto italiano tecnologico, e agli sforzi con cui il poeta di Casarsa cercò di comprendere il mutamento in atto.

E adesso, invece? Che direbbe dell’appiattimento surreale causato dai social media? Come indagherebbe la massima democrazia portata da Internet che coincide però anche con la massima approssimazione? Sono domande che mi pongo da anni: Pasolini avrebbe avuto un account Facebook?; si sarebbe messo in gioco scrivendo un fatidico “stato”?; avrebbe avuto voglia di riassumere un pensiero nei 140 caratteri di Twitter?

Gli stessi quesiti li ho posti anche ad Andrea Di Consoli.

Scrittore, giornalista, saggista, autore televisivo per la Rai. Persona dall’intelligenza camaleontica e in grado di adoperare più linguaggi. Proprio come Pasolini, che si destreggiava contemporaneamente fra poesie, romanzi, sceneggiature, opere critiche, articoli e libelli politici.

IL CORPO SOCIALE DELLO SCRITTORE E’ MEDIATICO

«Prima di rispondere in modo più approfondito alle tue domande» mi dice subito Andrea «c’è da fare un ragionamento a monte. Oggi il corpo sociale dello scrittore è di tipo mediatico, e la stessa opera d’arte individuale suscita sospetti e sbadigli in assenza di connessioni, interrelazioni e generosità rispetto ai processi collettivi in atto. Nel mondo è in corso una gigantesca marginalizzazione del sacro, e nel fenomeno rientra anche la riduzione crescente nello spazio pubblico della voce dello scrittore-sacerdote, che sempre meno può permettersi di pronunciarsi sul mondo a partire dalle proprie impressioni, spesso ingenue rispetto alle complessità del mondo.

Lo scrittore, se è vivo e non illuso, accetta di stare in questo flusso, e questo flusso mescola voci e corpi, abbatte gerarchie, ridicolizza presunzioni di superiorità e posizioni ieratiche».

Tu credi che Pasolini avrebbe usato i social? «No, non credo affatto che li avrebbe usati, perché il suo corpo esposto aveva una profonda aura sacra, di figlio unigenito della Tradizione. Certo, Pasolini era pienamente nel sistema ur-mediatico dell’epoca, ma ci stava, appunto, da ossimoro, e da profeta di sventura, come un Savonarola al quale fosse stato concesso di scrivere su giornali a larga tiratura e di fare cinema. Pasolini non avrebbe mai accettato di stare nel flusso social odierno, in cui tutti rivendicano un protagonismo, spesso tirando giù con la fune le personalità forti».

Se fosse ancora vivo, o meglio se fosse un nostro contemporaneo, con le stesse caratteriste e la stessa insuperabile personalità, come vivrebbe questo periodo? «Questo flusso-profluvio Pasolini lo vivrebbe con grande disagio, e credo che di fronte a esso si ritrarrebbe, chiudendosi a riccio, preferendo un silenzio polemico, in tal modo difendendo la propria superiorità rispetto al mondo, che pure è tangibile.

La psicologia di scrittore di Pasolini funziona in presenza di un sistema-massa che ascolta in adorazione o in reazione violenta, ma diventa assolutamente impotente di fronte a un flusso demitizzante, cinico e disincantato come quello dei social, in cui, in fondo, un’opinione vale un’altra, uno vale uno, hanno tutti ragione e tutti torto allo stesso tempo. Questo flusso indistinto avrebbe minato alle basi il vitalismo di Pasolini».

IL NUOVO ITALIANO CHE SI PARLA SU FACEBOOK

E c’è poi la questione più tecnica, della lingua italiana intendo. Il 16 dicembre 1964 Pasolini pubblicò su Rinascita un intervento intitolato Nuove questioni linguistiche; intervento che non si pose affatto come mera analisi filologica, ma più provocatoriamente, pasolinianamente, come ritratto sociolinguistico del momento.

Qui l’autore si concentrò sulla nascita di un nuovo italiano, che trovava le sue matrici pulsanti nell’Italia del Nord, sede delle grandi fabbriche e della moderna cultura industriale. Pasolini decretò che era nato «l’italiano come lingua nazionale», ovviamente in riferimento allo strapotere della borghesia, che imponeva alle classi subalterne le proprie visioni e i propri modelli, le proprie strutture, anche linguistiche, e i propri desideri.

«La nascente teocrazia del Nord» scrisse, «s’identifica egemonicamente con l’intera nazione, ed elabora quindi un nuovo tipo di cultura e di lingua effettivamente nazionali». Pasolini tracciò perfino le caratteristiche di questo strumento comunicativo, questo nuovo italiano dimentico delle proprie radici e peccatore per essersi dato in pasto all’industria.

Possiamo ricordarne i punti principali, seguendo lo schema di Marazzini:

  1. la semplificazione sintattica, con una caduta di forme idiomatiche e metaforiche, non usate dai torinesi e milanesi, i veri padroni della nuova lingua (al posto dei fiorentini e dei romani);
  2. la drastica diminuzione dei latinismi;
  3. la prevalenza della tecnica rispetto a quella della letteratura, e quindi una minor letterarietà della lingua stessa.

LA POESIA DIALETTALE ESPRESSIONE AUTENTICA DI IDENTITA’

Pasolini dunque fu sensibilissimo a cogliere l’annullamento, la disintegrazione di quelle peculiarità dialettali a lui tanto care, che rispecchiavano mondi, sistemi di vita, anime, e non solo semplici aspetti fonetici e grammaticali. Chi scrisse La religione del mio tempo fu anche chi come nessun altro in Italia, forse, si spese per la promozione della poesia dialettale (e basterebbe pensare anche solo alla splendida prima parte di Passione e Ideologia): poesia dialettale che significava espressione autentica di un patrimonio identitario. Chi scrisse Poesie a Casarsa difficilmente avrebbe digerito quanto sta accadendo oggi.

IL MONOLINGUISMO DELLA TV. QUELLO DEI SOCIAL

Anche Andrea riflette molto su questo punto e lo fa a partire dallo strumento forse più social che Pasolini aveva a disposizione, e cioè la televisione.

«Per Pasolini la tv aveva portato alle estreme conseguenze il monolinguismo imposto dal fascismo, che mal tollerava i dialetti, così come il capitalismo aveva portato alle estreme conseguenze il fascismo. Purtroppo Pasolini aveva torto, perché la democrazia, il parlamentarismo e il libero mercato non sono esattamente una dittatura, benché abbiano tante storture, come del resto avviene per tutti i sistemi organizzati complessi.

Pasolini era un plurilinguista, poiché aveva una visione municipale e pre-unitaria dell’Italia – e dico questo non per sminuire la sua posizione, ma per ricordare che nel suo ragionamento agiva una funzione cruciale della tradizione letteraria ed estetica italiana: anzitutto Dante e Gadda. La sua posizione era chiara, forte, anti-centralista, per usare un brutto termine della tradizione federalista. Ma ricordo che la televisione di Stato che lui aggrediva e disprezzava era fatta da gente come Piccioni, Cattaneo, La Capria, Eco, Romanò, Bolchi, Zavoli, Piovene, Soldati, ecc. Non proprio una consorteria fascista con l’obiettivo d’impoverire l’italiano degli italiani. Aggiungo che in quella Rai lì lavorava anche Carlo Emilio Gadda, che non era esattamente uno che scaldava la sedia».

Che vuoi dire con questo? «Voglio dire che il tema linguistico che Pasolini poneva – in un’epoca d’oro, aggiungo io, ma lui era troppo accecato dal suo sogno di struggente e disperata regressione edenica per accorgersene – oggi è totalmente superato, perché si sta imponendo in ogni dove a grande velocità un’altra koinè ancora, ovvero l’inglese, che sta rendendo l’italiano una lingua marginale, quasi un dialetto della globalizzazione».

«Dopodiché aggiungo che certamente la lingua italiana che si usa sui social è interessante da studiare tecnicamente, ma è così slabbrata, impoverita, frettolosa, ridotta ai minimi termini che analizzarla dal punto di vista della ‘questione della lingua’ ho il sospetto che renda ridicoli e goffi. Senz’altro Pasolini non lo avrebbe fatto; anzi, di fronte a essa – la lingua dei social – si sarebbe depresso e avrebbe accettato la resa. Aggiungo un’ultima nota».

«L’epoca d’oro della poesia dialettale italiana (pensiamo a Marin, a Pierro, a Loi, a Noventa, a Zanzotto, ecc.) è stata proprio il secondo Novecento, l’epoca di Pasolini: l’epoca che, a suo dire, stava assassinando definitivamente la nostra lingua sotto l’occulta e distruttiva regia televisiva, capitalistica e democristiana. Pasolini non sapeva, non poteva sapere, che altri ben più gravi tsunami si sarebbero abbattuti sul corpo vivo della lingua italiana».

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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