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Cosa sono i market networks e perché piattaforme come Uber sono solo l’inizio

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Qualche giorno fa, mentre spendevo un bellissimo weekend nel cuore dell’Umbria, a Todi per Appy Days, nel riflettere in preparazione delle discussioni ai panel che mi vedevano coinvolto, mi è capitato di rileggere un post illuminante di Aaron Dignan, datato 2013. Nel post, tra le altre cose, Dignan spiega come a causa della trasformazione tecnologica (e digitale), i mercati sono diventati il territorio incontrastato di dominio della disruption – il cambiamento improvviso di prospettiva che tanto spaventa i grandi incumbent che dominano la nostra società: «la tecnologia – il software in particolare – ha avuto un effetto destabilizzante sui modelli di business tradizionali. Il personal computing ha livellato il campo in quasi tutti i settori. I prodotti ed i mezzi per crearli sono diventati digitali».

Credits: tagesspiegel.de

«La capacità di produzione – continua Dignan – è cresciuta ed è più accessibile e portatile. L’accelerazione di questa tendenza (in linea con la legge di Moore) significa che ogni singolo giorno diventa più facile per chiunque competere con il tuo prodotto o servizio, farlo meglio, più velocemente e in maniera meno costosa. Si diceva una volta che il momento migliore per iniziare un business fosse ieri: al giorno d’oggi, domani sarebbe quasi sempre un punto di partenza più vantaggioso».

In questo modello di società, secondo Dignan, le aziende devono adattarsi dunque a nuovo “modello operativo”: diventare macchine collaborative, adattabili e dedite alla sperimentazione continua, in grado di comprendere il cambiamento tecnologico e plasmarlo e utilizzarlo a loro vantaggio per facilitare la produzione di valore.

Secondo Dignan le Reponsive Organizations: «mettono insieme prodotti e servizi, li testano e li migliorano di continuo […] cercano i migliori talenti con particolare attenzione per quelli che sanno immaginare, costruire e testare le proprie idee.

Sono maniacalmente focalizzate sui clienti.

Sono ipersensibili agli attriti – nelle loro operazioni quotidiane e nell’esperienza utente che propongono. Sono aperte, connesse e costruiscono con e per la loro comunità di utenti e co-cospiratori. Affrontano con piacere l’ignoto: i loro modelli di business e valore per il cliente si rivelano nel corso del tempo».

Le parole di Dignan hanno risuonato nella mia testa per giorni e mi hanno portato a riflettere su altre parole, quelle di un altro interprete privilegiato della digital transformation come John Hagel III.

Introducendo il prossimo Peter Drucker Forum di Vienna, Hagel parla di come, nella lotta alla “performance pressure” che il progresso tecnologico pone alla nostra società, abbiamo una scelta fondamentale da fare: quella tra la ricerca senza sosta delle efficienze produttive e l’ aumento delle possibilità dell’essere umano.

LA TECNOLOGIA SI EVOLVE CON L’UOMO

Non a caso Hagel è lo stesso che quando parla di piattaforme digitali ne vede l’evoluzione culminante in quella che egli chiama la “learning platform”: la piattaforma dove il partecipante trova apprendimento e possibilità di crescita; piattaforme che accelerano le performance dell’utente e, allo stesso tempo, ne affinano le capacità.

Ma cosa sono le piattaforme digitali se non l’espressione più profonda della nostra umanità? In un bellissimo breve saggio intitolato “Can we learn to be Intelligent?” il finlandese Kilpi spiega efficaciemente come la tecnologia stessa sia uno strumento prodotto dall’umanità e che – come nel rapporto individuato già decenni fa da Marshall McLuhan – essa definisce l’umanità non meno di quanto quest’ultima dia forma alla tecnologia stessa: “We Shape Our Tools and Our Tools Shape Us”, sosteneva McLuhan secondo una citazione di discussa attribuzione.

«Dovremmo accettare benvolentieri il fatto che le persone oggi sono più intelligenti in larga misura perché hanno inventato e utilizzano strumenti più intelligenti. Creare strumenti è ciò che gli esseri umani hanno sempre fatto. Le interazioni tra gli strumenti e la mente umana sono così complesse che è molto difficile cercare di tracciare una linea tra l’uomo e la tecnologia. Né è un gioco a somma zero quello in cui il cervello umano abbandona attività che vanno in mano all’intelligenza tecnologica».

In breve, la tecnologia è indistingubile dagli esseri umani e dalla società; una considerazione simile la si dovrebbe a mio parere anche verso il capitalismo stesso o, più in particolare, verso le “tecnologie” organizzative che abbiamo utilizzato negli ultimi settanta anni e che continuiamo a organizzare: il capitalismo e le corporazioni, le burocrazie e le istituzioni che usiamo rappresentano noi stessi; in ultima analisi, siamo noi stessi.

LE CRITICHE ALLA SHARING ECONOMY

Rifletto spesso su queste considerazioni quando mi capita di assistere all’annosa diatriba da sharing-economy-dentro-fuori, e al dibattito sul “non è abbstanza sharing” ma solo “capitalismo delle piattaforme”, con tentativi di fare tassonomie e definire cosa sia diverso e cosa sia uguale. Ma cosa stanno diventando in realtà queste piattaforme digitali che chiamavamo “sharing economy” solo qualche anno fa? In pochi si stanno accorgendo che un trend di ampio respiro rende oggi queste piattaforme competitive con il modello industriale tradizionale e le fa andare in conflitto diretto con schiere di incumbent.

L’avanzamento tecnologico nasce in larga misura dalla collisione tra strumenti di connettività come gli Smartphone o il tracker GPS e i nuovi modelli di “linguaggio e interazione” quali le app e le piattaforme web. Grazie alla collisione di questi fattori abilitanti oggi le aziende-piattaforma riescono a competere con le aziende tradizionali (industriali), mobilitando “reti”, fatte di tanti produttori e collaboratori – non più dipendenti nel significato tradizionale del termine. Questi utenti (pari) e partner più o meno professionalizzati si coordinano tramite una piattaforma condivisa, condividendo strumenti e usando vetrine comuni e garantiscono all’utente consumatore un’esperienza di “transazione” comune e competitiva con quella che potrebbe offrire un’azienda a tutti gli effetti tradizionale.

A differenza di quanto accadeva in un passato più o meno recente, è possibile oggi ottenere nello stesso contesto organizzativo, quello della “piattaforma” alternativa alla “azienda” di epoca industriale, un buon livello di due fattori chiave nell’attività economica: la motivazione e il coordinamento. Rimando alla lettura di Albert Wenger nell’interezza del suo splendido Networks, Firms and Markets ma cercherò per quanto possibile di spiegare.

La motivazione favorisce l’emergere del “migliore/il più bravo” ed è essenzialmente il motore della competizione sul mercato: sulla piattaforma digitale il migliore accumula reputazione che lo fa emergere in un contesto che – come detto – è in realtà comune e condiviso per tutti. Non a caso, nel molto chiacchierato post di apertura della collana “What’s the Future of Work”, Tim O’Reilly – ultimo tra i guru di internet ad occuparsi di questo tema – identifica come una delle caratteristiche chiave della piattaforma di successo proprio quella di “permettere al meglio di emergere».

D’altra parte il coordinamento – l’attività principe dell’organizzazione moderna, necessaria per produrre un prodotto e un servizio in maniera ripetibile e ubiqua – viene sostituito nella piattaforma digitale dall’espressione della capacità del progettista della stessa e riguarda quanto egli riesca a fare leva sulle motivazioni dell’ecosistema, a partecipare nel creare una esperienza comune, valida e integralmente riconoscibile nel brand e nel ruolo della piattaforma. Anche per questo motivo e per aiutare i progettisti di piattaforme di tutto il mondo a creare sistemi in grado di rispondere a motivazioni esistenti e crearne di nuove, nel 2013 ho realizzato il primo Toolkit per la progettazione di Piattaforme: proprio in questi giorni sto per rilasciare una nuova versione.

Se lo shift dal modello industriale a quello post-industiale delle piattaforme è avvenuto dapprima e con forza in mercati dove la necessità di coordinamento è limitata e la transazione di base è piuttosto semplice – come l’ospitalità turistica o il trasporto – e vero che lo stesso modello sta ora sbarcando su ogni mercato, sia esso grande o piccolo, di nicchia o generalista.

DA UBER A AIRBNB: COSI’ LE AZIENDE DIVENTANO PIATTAFORME

Come ha spiegato bene Rawn Shah nel suo “Moving From Mass Production Supply Chains To Market Networks, la frontiera ultima della “piattaformizzazione” è l’arrivo di questo approccio sui mercati più specifici e professionali – da quello delle ristrutturazioni all’organizzazione di eventi – mercati nei quali professionisti affermati, o aspiranti tali, lavorano tradizionalmente a stretto contatto, su progetti complessi e che richiedono numerosi collaboratori, “partner” e l’interazione con gli utenti finali. Spesso (e saremo in grado di leggere più avanti il significato chiave di questo aspetto) il processo di “professionalizzazione” e la trasformazione di utenti occasionali in veri e propri “partners” capaci di interagire tra di loro e con la piattaforma è parte integrante del processo di maturazione della piattaforma stessa. Secondo Shah:

«Il vero valore sta nella capacità di costruire complessi accordi di business, specifici del contesto, che includono più partner, e non solo nel gestire singole semplici transazioni ripetutamente (come nei casi delle piattafome che vediamo dominare il mercato, ndr) […] La collaborazione accade intorno ai molteplici e complessi servizi necessari per un progetto, in cui si selezionano i partner sulla base di reputazione e fiducia, con rapporti più a lungo termine e una maggiore soddisfazione. L’orchestrazione diventa la sfida fondamentale quando entra in gioco il flusso di lavoro, di business».

Parliamo dunque proprio di quelli che J. Currier definisce le “market networks

nati dal punto di incontro tra i social network (chiave nella gestione delle relazioni) e i marketplace (famosi per la gestione ottimale delle transazioni). In questo punto di incontro c’è, secondo Currier, uno sweet spot nel quale, grazie all’abilitazione data dalla piattaforma digitale, processi di business più o meno complessi possono avvenire in maniera ottimizzata e generando più valore: dall’organizzazione di un evento al finanziamento di una startup, dalla progettazione e produzione di un oggetto alla ristrutturazione di un’abitazione. Secondo Currier:

“Col tempo, quasi tutti i professionisti indipendenti e i loro clienti potranno svolgere le loro attività attraverso la market network della loro industria. I market network avranno un enorme impatto positivo su come milioni di persone lavorano e vivono e su come centinaia di milioni di persone acquistano servizi migliori”».

Fonte: Techcrunch

Ma qual è l’impatto di una tale inversione di valore tra il mondo burocratico dell’era industriale e la nuova organizzazione “responsive” capace di dare forma tangibile agli strumenti e ai mercati? Come si deve e si sta trasformando l’azienda e il modo in cui lavoriamo?

Per citare ancora Rawn Shah, ripensare come le aziende producono i servizi significa allo stesso modo ripensare

«Il modo in cui le aziende sono strutturate – scrive – le persone impiegate, quanto importano le relazioni e come soddisfare le esigenze sempre più complesse del cliente (ed?: che cerca l’apprendimento e il miglioramento). L’organizzazione di successo è quella che eccelle nella capacità strategica di orchestrare reti e ecosistemi […] per offrire un processo di creazione di valore sostenibile per tutti i partner coinvolti».

In questa nuova frontiera di sperimentazione è compito della piattaforma guardare all’utente nella maniera in cui Hagel indica: come un learner, qualcuno che ha bisogno di migliorare per rispondere alle crescenti pressioni della modernità (tecnologica), qualcuno che ha bisogno di nuovi strumenti che lo supportino nella ricerca di modalità nuove di interfacciarsi col lavoro e con l’equilibrio dello stesso con il suo sistema di relazioni e progetto di vita.

COME CAMBIANO LE AZIENDE E IL LAVORO NELL’ERA DIGITALE

Cosa succede all’evoluzione dell’azienda – e a noi stessi – in questo processo non è ancora chiaro, pure se visionari come Esko Kilpi riescono a volte a evocare immagini di questa evoluzione, come ha fatto il finlandese in un recente pezzo intitolato “The new kernel of on-demand work“ (il nuovo nucleo del lavoro on demand) che sono costretto a riportare in un lungo estratto a causa della profondità delle riflessioni che offre:

«E se il nuovo nucleo del lavoro on-demand non fosse creare transazioni di breve termine e di scambi spot, ma fosse creare una nuova comprensione del lavoro come un’interazione contestuale basata sulla creatività collaborativa e sul capitale umano?I rapporti tra i lavoratori diventerebbero centrali e, per molti versi, rappresenterebbero la definizione caratteristica dell’organizzazione. Un’organizzazione, dunque, non sarebbe più un insieme di beni appartenenti ai proprietari, ma un insieme di accordi e impegni che si creano dinamicamente tra persone: l’organizzazione diverrebbe così un processo continuo di organizzazione».

Kilpi si sofferma poi, in chiusura del post che vi invito a leggere, su quanto inesplorato sia il territorio che questo nuovo modello di collaborazione ci spingerebbe a percorrere. L’inadeguatezza delle più comuni forme di istituzione che utilizziamo oggi – l’azienda, la cooperativa, la non-profit – appaiono chiaramente se si pensa che non avremmo neanche una parola in grado di descrivere questo nuovo approccio al lavoro: quello che Kilpi chiama “value-adding relationships” (relazioni che aggiungono valore).

Ma parliamo di una rivoluzione silenziosa che – come dice Paul Mason – sta decretando la “fine del capitalismo” o piuttosto di un evoluzione dello stesso? D’altronde – come spiegato egregiamente su questo accurato post su Agile Elephant – i costi di transazione diminuiscono non solo “fuori dall’azienda” ma anche dentro la stessa e – pure se in parallelo a unicorni particolarmente innovativi come l’ecosistema distribuito di bitcoin – le piattaforme vincitrici in quest’era iperconnessa sono, nella maggior parte dei casi, esse stesse aziende – diverse in molti aspetti – ma simili in altre.

Come ha recentemente sostenuto E. Morozov su Twitter, nella realtà delle cose, “non possiamo pensare a una narrativa di internet che non contempli il capitalismo, come non possiamo pensare a una narrativa del capitalismo che non contempli internet”

L’ERA DELLE PIATTAFORME DIGITALI

Nel suo oped di Giugno sul Guardian sull’ “era delle piattaforme” Morozov ha fatto riferimento all’economista Friedrich Hayek e alla sua utopia di ultra libero mercato, auto-regolante, dove meccanismi di auto-regolamentazione – del tutto simili a quelli che oggi vediamo sulle piattaforme digitali – possono battere in efficienza i regolamenti e i piani definiti in maniera centralizzata; come spiega bene Morozov, nell’utopia Hayekiana:

«La tua reputazione rifletterebbe ciò che altri operatori del mercato saprebbero di te: se fossi un brutto cliente o un driver maleducato gli altri lo scoprirebbero presto e speciali policy per controllare il tuo comportamento sarebbero inutili… secondo Hayek, quando le nostre norme sociali cambiano (quello che era considerato male ccinquanta anni fa diviene accettabile oggi) esse si riflettono immediatamente sulla nostra reputazione, mentre per cambiare le leggi, d’altra parte, sarebbe necessario molto, troppo tempo».

Per quanto libertario e Thatcheriano – la Thatcher fu tra i seguaci più convinti di Hayek se è vero che il Thachersimo nasce proprio da un rinnovato interesse verso le teorie dell’economista Austriaco Nobel nel 1974 – la teoria di Hayek va estremamente più in profondità nella sua analisi. Hayek fu forse tra i primi a capire l’estrema complessità del mondo moderno – e per questo spesso in contrappsizione con Keynes, padre dei modelli che tentano di descrivere la macro economia moderna in semplici equazioni.

Hayek ha sempre sostenuto che meccanismi fludi di regolazione battono in efficienza gli interventi programmati e le economie controllate.

Secondo Morozov, la via della regolamentazione delle piattaforme digitali e dei giganti della Silicon Valley è in effetti l’ultimo e il più importante palcoscenico dello scontro tra la socialdemocrazia e il capitalismo: quanto saremo in grado di evolvere i nostri sistemi democratici per far fronte al predominio della competizione sul mercato digitale? Secondo Morozov: «la Silicon Valley sta montando un attacco alla stessa filosofia dietro la socialdemocrazia: l’idea che norme e regolamenti possono essere impostati dai governi e dai consigli comunali. La Silicon Valley la pensa diversamente: l’unico vincolo corretto contro gli eccessi del mercato è il mercato stesso. Quindi, toccherebbe ai consumatori punire – attraverso cattivo rating, ad esempio – i cattivi automobilisti o gli host inaffidabili e i governi dovrebbero rimanerne fuori […] Se siamo disposti a riconoscere che il capitalismo nel secolo passato è stato reso stabile dal compromesso socialdemocratico […se questo] “post-capitalismo” emerge dall’ indebolimento delle tutele sociali […] probabilmente dovremmo parlare di ritorno al “pre-capitalismo”».

In effetti Hayek stesso aveva preconizzato che un mercato liquido di opportunità e di scambi tra pari avrebbe posto alcuni elementi della società nella pericolosa possibilità di soccombere alla competizione: in effetti, egli fu tra i primi a sostenere l’utilità di un reddito incondizionato di base che risolvesse una tale problematica.

Tuttavia la riflessione più attuale sul pensiero dell’economista austriaco che potremmo fare riguarda un distinguo chiave che egli fa quando parla del problema economico fondamentale della società: «il problema economico fondamentale della società, non è soltanto un problema di come allocare date risorse, se con “date” si intende date a una sola mente che risolva deliberatamente il problema sulla base dei dati a sua disposizione; si tratta piuttosto di un problema di come assicurare il miglior uso delle risorse note a qualsiasi membro della società, per fini la cui importanza relativa solo questi individui sanno. Per dirla in breve, si tratta piuttosto di un problema di utilizzo della conoscenza che non è disponibile a chiunque nella sua totalità».

LA TRASPARENZA E L’AFFERMAZIONE DELLA BLOCKCHAIN

Chissà che strumenti nuovi, quali la Blockchain con la sua fiducia e trasparenza algoritmica o lo sviluppo dell’internet delle cose che interconnette e rende interdipendente il mondo fisico, non possano abilitare proprio questo ultimo rivoluzionario aspetto: la totale pervasività della conoscenza su cosa serve in un determinato momento a un determinato attore della società.

Di certo, in una tale prospettiva, il nostro modello economico – e dunque il capitalismo e le organizzazioni – sarebbe sottoposto a un cambiamento radicale e le visioni di Hayek suonerebbero forse meno come utopie ultra liberiste e più come risposte alla crescente complessità del mondo moderno.

SIMONE CICERO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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