Cos’è il quantified self e come usare il digitale per stare in forma (senza paranoie)

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Seguo le tendenze dei wearable devices e del quantified self per interesse personale da qualche anno, non sono un grande esperto, quanto piuttosto un autodidatta appassionato. Avevo iniziato a scrivere un contributo critico, alla luce di alcune idiosincrasie emerse, e di alcune statistiche. Poi mi sono accorto che prendersi cura del proprio corpo, senza medicinali, ha migliorato anche il mio benessere “mentale”: la partita è complessa, e forse merita questo articolo (diviso in due pubblicazioni).

Credits: technologyadvice.com

Il movimento del quantified self nasce dall’idea di utilizzare la tecnologia per misurare con precisione il proprio corpo e la propria attività fisica, e di utilizzare questa conoscenza per migliorarsi. Non può che utilizzare wearable, dispositivi indossabili dotati di sensori, giroscopi e sistemi di elaborazione delle informazioni: oggi esistono gli smartwatches, i braccialetti (come Jawbone, Fitbit), le applicazioni per cellulare che misurano le distanze percorse di corsa, magliette intelligenti, elettrocardiogramma portatili ecc.

È un mercato in espansione che pone interrogativi, anche scomodi: qual è il rischio che il quantified self si trasformi in una quantified paranoia? Quanto è utile sapere di sé per stare meglio? C’è una soglia di conoscenza che diventa dannosa?Sono domande che, come società, affrontiamo già in campo medico e psicologico: la diffusione di conoscenza medica ha evidentemente degli impatti nella generazione di false auto-diagnosi e nel correlato abuso di medicinali. Si vivono gli stessi rischi anche per questo hardware high-tech che dispone di software di analisi super intelligenti? Purtroppo sì. Devo al mio amico Roberto Ferrari (infermiere) l’illuminazione: commentando un wearable device che consente di monitorare l’elettrocardiogramma di una persona, ha posto il problema dei falsi positivi. Situazioni in cui il dispositivo lancia per errore un allarme, causando ansia reale in chi lo indossa.

Mi si è aperto un mondo.

Rischiamo di indossare gadget che aumentano il nostro stress con falsi positivi, che ci richiamano all’ordine e impattano sulle nostre vite suggerendoci certe attività a discapito di altre?

La Food and Drug Administration è corsa ai ripari, autorizzando le applicazioni per smartphone con finalità medicali. Al di là di una risposta normativa, mi interessa capire se possiamo costruire una risposta culturale, in primo luogo interrogandoci su quale sia la filosofia alla base di tutte queste invenzioni. Conoscendo molti protagonisti di questo mondo non credo che ci siano volontà di controllo nei giovani makers e aspiranti imprenditori che inventano braccialetti per monitorare il sonno, la fatica, l’attività muscolare. Non cedo pertanto a una spiegazione legata alla biopolitica, si tratta semplicemente di business, di un modo per guadagnarsi da vivere più interessante di altri – che può avere riflessi negativi imprevisti, questo è pacifico.

C’è però, sotteso, il trionfo di un modo di pensare che ho fatto a lungo mio: aumentare la propria efficienza per aumentare le cose che si possono fare. Il nostro corpo, misurato e analizzato scientificamente, diviene programmabile e docile, rispondendo alle nostre esigenze lavorative e offrendoci maggiori soddisfazioni personali.Un sogno? Forse no. Devo ammettere che, per quanto fastidioso sia talvolta, il mio corpo è onesto. Abbiamo un rapporto naturale, non filtrato e, molto probabilmente, cerca di dirmi che il problema è altrove (in quella che, per semplicità, chiamo mente). Se dovessi interporre tra noi uno o più dispositivi, uniti a diversi algoritmi di elaborazione, che non conosco e non padroneggio, la mente avrebbe maggiori possibilità di imporsi: quali sono i lati negativi?

Il corpo è l’unica spia di allarme per dirci che viviamo in una società malata o che la nostra vita si basa su scelte errate.

Siamo stanchi perché abbiamo lavorato troppo o male? Se con il tuo gadget dormi meglio, recuperi la stanchezza, ti dimentichi l’origine della stessa. Ci hai davvero guadagnato? Puoi andare via il week-end, uscire con gli amici, poi lavorare quindici ore al giorno per una settimana, aprire la tua start up di successo la notte, andare a una convention, giocare a calcetto, fare una corsa, vedere la tua ragazza…

È una continua corsa per sfruttare a fondo la vita: diventiamo forse persone migliori? Ho la sensazione che, così, accumuliamo tante esperienze su cui, però, non riusciamo a riflettere. Ci manca l’otium, la pausa sul divano a leggere un buon libro, il risveglio al rallentatore della domenica mattina. Quei momenti in cui ci perdiamo in chiacchiere con la nostra dolce metà prima di addormentarci, o guardiamo il soffitto pensando con malinconia al passato.Certo, nella prospettiva iper-efficiente possiamo parlare delle nostre avventure ai nostri sodali, se non siamo distratti dal cellulare, e poi postarle su Facebook, Pinterest, Twitter… Ma perché dovremmo? Viviamo già in una società della performance, vogliamo estremizzare?

La quantificazione unita alla condivisione può creare effetti ancora più perniciosi: saremo spinti a vedere cosa fanno gli altri, a cercare i loro numeri e a domandarci se siamo nelle medie, o se siamo inferiori. Corriamo poco, mangiamo troppo, dormiamo troppo? Però magari scriviamo dei romanzi da togliere il fiato (ma non si quantificano facilmente).

Abbiamo decine di cause di ansia sociale: gli abiti, le auto, l’altezza, la bellezza, l’odore. Ne vogliamo aggiungere di altre? Non rischiamo di comunicare a tutti che siamo malati se indossiamo un wearable che trasmette informazioni in caso di attacco epilettico? Il genere di messaggio che nessun malato vorrebbe comunicare.

Personalmente, sono stato a lungo affascinato dai dispositivi indossabili, senza comprarmene mai uno. Non capivo perché.

Poi ho collegato la cosa al mio fastidio per le diete, per gli ordini, per i vegani, i fruttariani, gli straight edge. Se un dispositivo mi dicesse di uscire a correre mentre mi sto leggendo l’ultimo saggio di economia, e non ne ho assolutamente voglia, dovrei sentirmi in colpa? Sarebbe uno sprone per fronteggiare la mia pigrizia o piuttosto un rompiscatole?Probabilmente, non sono l’unico a porsi queste domande, se è vero che il 32% degli acquirenti smette, dopo sei mesi, di usare i propri devices, il 50% dopo un anno. E in generale anche tra i “sani” non pare che ci siano nuovi sviluppi.

Sono cose nuove, vanno adattate alla clientela. Oppure, la tecnologia non può tutto, e non deve permettersi di dirci cosa dobbiamo fare. Naturalmente, ognuno è libero di fare come gli pare. Di misurarsi il misurabile, sperando che il proprio fisico possa dargli ciò che pretende da lui.Io penso che i sani potrebbero anche farne a meno, mentre questi dispositivi hanno senso per gli sportivi, per le diete, per curare a distanza malattie. Ma se una notte non riesco a dormire perché ho studiato e scritto fino a tardi ho bisogno di una spia rossa che mi avvisi che non va bene? Non va bene per chi? Per il mio datore di lavoro forse, non per i miei lettori.

Ma parlare di salute ci fa stare meglio davvero!

Eppure questa “anarchia corporea” può essere controproducente. Ho vissuto anni in cui giocavo a calcio senza riscaldamento, in cui mangiavo qualunque cosa e bevevo quattro caffè al giorno. Poi la pubalgia mi ha insegnato a fare riscaldamento e stretching e altri problemi mi hanno presentato il conto, un po’ salato, dell’allegria giovanile.Partendo da una prospettiva individuale, ti accorgi che se il corpo sta meglio, stai meglio anche tu: hai idee migliori, più capacità di ragionare.Uno studio letto di recente correla cibi mangiati e produttività sul lavoro. Un altro studio afferma che la flora batterica intestinale influenza il nostro umore e un suo malfunzionamento può essere causa di depressione.Ci ero arrivato ancora dai tempi in cui preparavo la tesi triennale e leggevo Antonio Damasio, neuroscienziato che ha sostenuto l’importanza delle reazioni corporee nella presa di decisione.

Ma fino a quando non si modificano le proprie pratiche quotidiane fatichiamo a convincerci della bontà dei concetti che conosciamo. La ragione per cui scrivo questa pars costruens deriva da decisioni banali: aumentare la verdura consumata, mettere più sale nella pasta (soffro di bassa pressione), andare a correre ogni due giorni. Ho dovuto leggere un libro di un evoluzionista, che mi ha definitivamente convinto dopo avermi spaventato a morte: il corpo umano si è evoluto per correre e camminare per ore, nella caccia e nel nomadismo, e oggi la dieta ci riempie di calorie superflue, in modi pericolosi (zuccheri trattati alzano troppo rapidamente i livelli di glicemia).Stare a casa in panciolle significa maggiori rischi di diabete di tipo 2, di cardiopatie e, addirittura, di tumori legati alle aree riproduttive.

Ed ecco che la prospettiva diventa sociale: la maggior parte delle malattie di cui soffriamo oggi sono prevedibili con una dieta sana e attività fisica moderata.

Quando la spesa sanitaria si mangia un 20% della raccolta fiscale annua ha senso porsi interrogativi seri: chi conduce una vita pericolosa (mangia junk food, beve solo bibite gassate zuccherate) deve contribuire di più a un sistema di cui approfitterà quasi certamente? Le statistiche sono impressionanti in tal senso: il diabete incide per circa 10 miliardi di euro sulla sanità italiana, oltre a causare altre malattie; il 22% dei bambini italiani tra gli 8 e i 9 anni è in sovrappeso.

Su sigarette e alcolici si pagano delle tasse apposite, forse sarebbe l’ora di pagarle pure su Coca Cola, hamburger e patatine fritte, dolcificanti e sciroppo di glucosio. Avrebbe il primo effetto di alzarne il prezzo, e quindi diminuirne i consumi. Non sarebbe una misura classista, perché in Italia le alternative a basso prezzo esistono, basta frequentare panetterie e mercati rionali. Sarebbe anche utile scrivere “l’abuso nuoce gravemente alla salute” su molti prodotti che diamo tranquillamente ai nostri bambini.Tutte soluzioni normative che, prima di finire in Parlamento, richiedono un ampio consenso, la difesa da lobby agguerrite, e quindi una cultura condivisa su cosa vuol dire adottare uno stile di vita sano, e, soprattutto, perché.Credo che qui stia il punto dolente: discorsi su una dieta sana e su una moderata attività fisica si fanno da anni. Purtroppo talvolta sono in mano a integralisti che hanno interessi in ballo, come venderti la pasta al Kamut o prodotti biologici che costano il doppio dei concorrenti non bio. La storia non ci è d’aiuto: politiche di miglioramento dell’educazione fisica sono state portate avanti dalle dittature o per fini militari (soldati più sani sono soldati più efficienti). Non proprio una tradizione incoraggiante.

Dovremmo discutere di corpo e salute alla luce dei molti dati scientifici di cui disponiamo, dovremmo rendere lo sport una materia di studio e discussione non limitata al bar; sottrarre il discorso sanitario alle trasmissioni televisive che guardano le nonne, alle riviste con la grafica anni settanta. Le diete non sono solo un trip femminile né esistono solo per un mondo di narcisisti e insicuri, sono uno strumento che offre benessere a buon prezzo – a costo di un po’ di autocontrollo.La cura del proprio fisico è purtroppo confinata culturalmente a settori in cui non brillano intellettuali: c’è un po’ di machismo negli addominali scolpiti e nelle gambe toniche. Tornando ai miei ricordi, nel mio quartiere di periferia diventare grosso era abbastanza utile per evitare di essere minacciato fuori da scuola…Entriamo qui in ambiti molto personali: il proprio fisico è una vetrina in un mondo di apparenza, curarlo significa cedere a questa cultura? Fino a quando non costruiamo contro-argomenti solidi, c’è il rischio. Stesso discorso per lo sport: oggi è soprattutto spettacolo, performance inseguita con ogni mezzo (al confine del lecito), quanto è corretto eticamente metterlo al centro del nostro discorso di salute pubblica? Non rischiamo di motivare ulteriormente i cultori dell’agonismo?Parlandone con Marco Liberatore, che ha coniato lo splendido ossimoro di “filosofia del wellness” per riferirsi a queste riflessioni, è emersa la possibilità di rivolgersi ad altre forme di sport, per lo più informali e metropolitane, come lo skating, il parcour, la corsa, la camminata nordica; magari aggiungo il basket da campetto (3 contro 3). L’attività fisica è anche funzionale a creare buoni rapporti di vicinato o amicizia, a riappropriarsi degli spazi.

Probabilmente è la mia limitatezza, ma non ricordo molti filosofi che teorizzassero l’importanza dell’attività fisica, non in Occidente almeno (pare lo abbia fatto Confucio). Gli antichi romani e i greci lo davano per scontato.

Fino al trionfo dell’industrializzazione si lavorava nei campi, fino alla diffusione della mobilità di massa, si camminava molto di più.

Molte osservazioni che collegano corpo e cervello sono state rese disponibili solo nel secondo Novecento. L’origine delle allergie, il legame tra stress e sistema immunitario, sono fenomeni ancora privi di una spiegazione scientifica accettata ampiamente.

Ho scritto questo post per dare spazio a riflessioni che porto avanti da parecchio tempo, ma, soprattutto, per vedere se in Italia esiste una comunità di pensatori, e ricercatori, capace di sviluppare meglio ciò che ho solo intuito; servono competenze interdisciplinari, visto che sono argomenti tecnici che impattano sulla vita di tutti noi. Esiste una mole di dati scientifici e spiegazioni evolutive per creare un discorso pubblicamente efficace: sarebbe un peccato non utilizzarli.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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