Nutrire il pianeta è un tema nodale quanto difficile da discutere nella contemporanea economia dei consumi, dove la creazione di valore si è spostata sempre di più dal prodotto fisico, il manufatto, a quello immateriale, intangibile.Questo è ancora più evidente nel settore agroalimentare, nel quale la produzione di cibo standard ha ridotto progressivamente il valore del prodotto fino a renderne del tutto irrilevante la qualità, proprio mentre gli intermediari, come McDonalds o Coca Cola, lo impiegano in “contenitori immateriali” come hamburger brandizzati o bibite a zero calorie.
Possiamo facilmente notare che ormai nella catena del valore convenzionale il prodotto è ridotto a effimero escamotage per mettere in moto altri ambiti di valorizzazione quali quelli legati alla logistica, come per la GDO, il branding che ha aiutato nel creare finte storie per persuadere i consumatori che “il prodotto X è migliore perché lava più bianco” e la finanza, che ha allontanato sempre di più cittadini e comunità dai processi di creazione del valore.
Chi conosce i nostri percorsi di ricerca sa che sono anni che lavoriamo per individuare (e sostenere) una scena realmente legata alle pratiche della Social Innnovation proprio per evitare che, così come tutti gli hype tipici del gastroinnovagiornalismo, rischi di diventare l’ennesimo contenitore vuoto per opportunisti e maghi del selfbranding. O almeno per presidiare una idea alternativa alle affabulazioni della jackpot economy.
Investingando la scena italiana proprio per capire chi fossero quei giovani innovatori al lavoro non per fare pitch e conferenze, ma per costruire un nuovo modello capace di tenere in piedi la famosa e ultracitata triple bottom line (People, Planet, Profit) al fine di creare aziende capaci di contemperare esigenze ambientali, sostenibilità economica e responsabilità sociali, come spesso accade, ci siamo imbattuti in una categoria ben lontana dagli innovatori tout court a quali siamo abituati: pochi post-it, nessuno skateboard e mani segnate dal lavoro.
Ci trovavamo di fronte ad una mole sempre crescente di giovani che decidevano volontariamente di tornare all’agricoltura, riconoscendo e con la volontà di recuperare giacimenti, familiari o comunitari, generati dall’enorme biodiversità che caratterizza il nostro paese.Eureka! Sono loro, che con una mentalità cosmopolita e con la capacità di capire ed utilizzare nuovi media e tecnologie avanzate, stanno suggerendo un nuovo modello di sviluppo, legato ad uno dei comportati più strategici di questo paese. Sono tanti, colorati e belli.
Sono loro che stanno realizzando un’economia rurale orientata al societing, una Rural Social Innovation.
Per certi versi un nuovo modello economico che coniuga le tre categorie di people/planet/profit in un orizzonte di valori mutuati dal passato ma che ci proietta nel futuro riuscendo per prima ad utilizzare le innovazioni in modo critico, per risolvere i problemi dell’agenda setting globale.
Vivendo il tempo come scelta, usando quando serve le potenzialità del nuovo ma senza nessun pudore , anzi con la voglia, di ritornare indietro a prendere qualcosa che nella corsa verso una certa modernità abbiamo perso e che è fondamentale per la nostra sopravvivenza.E tutto questo non riguarda le scelte private di chi annoiato o deluso dalle metropoli lascia tutto e si dedica all’eremitaggio. Le scelte di vita di questi giovani introiettate nell’infosfera non sono più un fatto privato ma pubblico e quindi politico. Il riverbero delle loro scelte quotidiane nell’infosfera aiuta a ridurre le distanze spazio-temporali tra una modernità metropolitana nella quale avvengono i fatti del futuro e una ruralità delle aree interne, perennemente ancorata al passato. A noi piace parlare di #smartrurality, di ruralità vissuta come elemento critico per rileggere il contemporaneo, attraverso una dialettica su stili di vita sostenibili e nuove possibilità.Per questo con Adam Ardvisson e tutti gli amici della comunità di RuralHub abbiamo trovato interessanti e ci impegneremo a divulgare queste dinamiche generatrici di un nuovo modello che ci sembra stia rivoluzionando il sistema convenzionale nella speranza che sia sempre più capito e diffuso.
Di più non possiamo fare, non è questo il caso dove si può fare ricerca “su” ma al massimo “con”, anzi vi diremo che molti dei giovani norurali la riceca la fanno a prescindere scrivendo sulle pagine delle loro scelte esistenziali ben poggiati sui banchi delle loro comunità.
E, così come nel framework di lavoro che ci hanno suggerito e che vedrete illustrato nel Manifesto della Rural Social Innovation e sintetizzato Nel Rural Social Innovation System, magicamente la disintermediazione prende il posto della logistica, lo storytelling si sostituisce al marketing e la redistribuzione del valore si sostituisce alla finanza. La disintermediazione opera in una dinamica di comunità mettendo in connessione produttori locali e comunità locali, coinvolgendo le comunità non solo come target nei processi di acquisto. Al branding si sostituisce uno storytelling autentico che trasmette il valore evocativo dei prodotti agricoli tradizionali con tutti i valori antropologici e territoriali ad esso legati. La redistribuzione innesca meccanismi di ritorno del valore materiale e immateriale all’interno delle comunità.
Il Rural Social Innovation System sovverte la catena convenzionale e mette al centro il prodotto, in un rapporto di osmosi con la comunità scrivendo regole critiche ci aiutino a farci le domande giuste quando sentiamo parlare di Made in Italy (quale Made in Italy? Quando possiamo parlare di Made in Italy?) aprendo discussioni fondamentali su come rivedere il foodsystem aldilà (nel senso temporale del termine) di Expo.
Expo è una grande opportunità, ma abbiamo a cuore soprattutto cosa rimarrà “alla fine della fiera”
Non mi sto occupando direttamente dell’evento e da un po’ mi sono anche ritrasferito a Sud, lontano da Milano, e per questo non saprei dirvi. Davvero stiamo trovando interessanti queste compagnie in giro per campagne italiane.Quello che pensiamo è che forse alla fine della fiera una delle sfide più serie e complesse che startupper neo rurali ed istituzioni dovranno affrontare sarà la misurazione degli impatti del Rural Social Innovation System. Fornire le evidenze sulle combinazioni di valore generato in molteplici ambiti, quali Agricoltura-Ambiente-Alimentazione-Salute-Economia e muoversi di conseguenza: parliamo del Rural Social Innovation Impact.
L’idea è che sia necessario riacquisire un approccio olistico, in grado di mettere in evidenza gli effetti diretti ed indiretti delle nostre scelte e determinare il contributo marginale delle nostre attività al progetto di un mondo più sostenibile e di un’economia human centered.Percorrendo la via che ci suggeriscono i rural social inovator, una via di amore e passione lontana dall’orgia di chef, riviste e club esclusivi. Una via che riesca a portarci oltre la mera mercificazione di ciò che mangiamo, una via che ci aiuti a rileggere il valore del cibo che mangiamo come un bene comune.
ALEX GIORDANO