Così abbiamo inventato Horus, l’occhio digitale per non vedenti

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Horus era una divinità egizia a cui venne strappato un occhio mentre combatteva. Tuttavia, l’organo gli venne ricostruito dal dio della giustizia Thot. Horus quindi ci è sembrato un nome adatto a un progetto forte come il nostro. Molto simbolico, facile da ricordare e particolarmente legato alla visione.

Il team di Horus

L’idea mi è venuta circa un anno fa, ero con il mio amico e collega Luca Nardelli. Abbiamo entrambi 23 anni e siamo ingegneri biomedici con esperienza nella visione artificiale. Eravamo per strada quando una persona non vedente ci ha chiesto aiuto per raggiungere una fermata dell’autobus. Siamo rimasti tutti e due molto colpiti dagli accorgimenti che doveva adottare per muoversi in città, come contare gli spigoli degli edifici per orientarsi.

A quel punto, ci siamo resi conto che sapevamo tutto della visione artificiale ma non avevamo mai compreso quanto fosse difficile vivere per i ciechi e gli ipovedenti.

Da allora ho cominciato a pensare che invece di realizzare soluzioni per i robot, sarebbe stato meglio utilizzare le stesse tecnologie per aiutare chi soffre di disabilità della vista. Ne ho parlato con Luca e da lì sono nati i primi schizzi e le prime righe di codice che ora permettono a Horus di funzionare.

Abbiamo creato un dispositivo indossabile che osserva il mondo e lo descrive a parole. Noi diciamo che Horus rende udibile l’invisibile.

All’inizio era un progetto da portare avanti nel tempo libero, ma è diventato più serio quando siamo stati selezionati dal TIM #Wcap Accelerator.

Tutto è partito dall’università di Genova dove ci siamo confrontati con Anna Testa e Lisa Di Sevo, rispettivamente responsabile e mentor dell’acceleratore di Milano. Anna e Lisa stavano promuovendo la Call for Ideas 2014 e dopo il nostro pitch ci hanno dato un ottimo riscontro.

Spesso ricevere feedback su nuove idee e strategie richiede molto tempo, per fortuna per noi è stato un programma di accelerazione nel vero senso della parola: è tutto più rapido e si ha l’opportunità di confrontarsi con persone esperte in diversi ambiti, riducendo al minimo il tempo che passa di solito tra “idea” e “correzione”. Inoltre, i numerosi seminari e gli eventi di networking ci hanno dotato di competenze e prospettive che non avevamo prima e che se avessimo dovuto apprendere “sbagliando”, avrebbero richiesto molto più tempo.

Il team “core” di Horus Technology è composto oltre che da me e Luca anche da Benedetta Magri, che ha 21 anni.

Di recente la MIT Technology Review ha incluso la nostra startup tra le dieci aziende disruptive italiane. In effetti, stiamo per introdurre sul mercato un dispositivo completamente nuovo, che in molti casi può mandare in pensione le tecnologie attualmente in uso. Al tempo stesso, portiamo tecnologie e dispositivi wearable utilizzati in ambiti del tutto diversi verso settori in cui possono realmente fare la differenza.

Tutto molto bello, certo. Ma mi piace pensare che saremo probabilmente più disruptive per la vita dei nostri futuri clienti che per il mercato.

SAVERIO MURGIA*20 aprile 2015

(*Saverio Murgia é founder e CEO di Horus Technology)

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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