Ci sono notizie che fa sempre piacere leggere. Come quella che in una competizione internazionale bandita dalle Nazioni Unite, alla quale hanno partecipato centocinquanta progetti da trenta paesi del mondo, tra i cinque premiati ci sono quattro italiani (e un progetto indiano). I vincitori si sono distinti, si legge nelle motivazioni, per “originalità, innovazione tecnologica, sostenibilità e concretezza dei progetti”. Non so voi, ma a me leggendo cose come queste si gonfia il petto di patrio orgoglio.Le proposte arrivavano da centri di ricerca, startup e aziende e riguardavano cruciali settori di interesse strategico in agricoltura.
Lo so, fa sempre un certo effetto sentir parlare di agricoltura in un blog dedicato all’innovazione, alle nuove tecnologie, alla digital life e alle startup…
In generale, fa sempre un certo effetto sentir parlare di agricoltura nel 2015, come se la terra e i suoi prodotti non ci riguardassero più, come se le stampanti 3D potessero un giorno stamparci anche i pomodori e le mele.
Quasi che le nuove tecnologie ci avessero affrancato dalla dipendenza dalle piante, che ci sono invece necessarie per sopravvivere sul pianeta. Al contrario.
La nostra dipendenza dall’agricoltura continua a crescere col crescere della popolazione mondiale (nel 2050 secondo la Fao saremo oltre 9 miliardi), e per questo il mondo agricolo è in pieno fermento e sempre a caccia di innovazione. Riuscire a coltivare abbastanza da sfamare tutti gli abitanti del pianeta e farlo in modo nuovo, non sarà solo cruciare per non morire tutti di fame, ma anche per avere più speranze di mantenere la pace e mitigare i flussi migratori, oltre che per inquinare e sprecare meno. Con tutto il rispetto per i social network, le prenotazioni alberghiere e la gestione del traffico urbano, si tratta indubbiamente di problemi centrali per l’umanità, di cui si parla troppo poco.
Meno male che almeno c’è l’Expo, che è anche l’occasione per imparare o ricordare in quanti e quali modi la ricerca italiana in campo agricolo sia stata innovativa e centrale nel mondo e abbia aperto la via a quella di molti altri paesi. Proprio a Milano il 26 agosto l’UNIDO, ovvero l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, insieme al CNR e alla direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari Esteri ha assegnato il suo International Award 2015.Tra i cinque progetti vincitori c’è per esempio Foodwa, un sistema ad energia solare per l’essiccamento di frutta, verdura, pesce e carne in modo sicuro, igienico e veloce. Poi c’è un progetto per la valorizzazione dei frutti di fico d’india sviluppato all’università di Catania, e una startup del Burundi sostenuta dall’Università Cattolica del Sacro cuore di Piacenza che ha studiato un sistema ‘distribuito’ per innovare la produzione e la commercializzazione degli alimenti di origine animale, tramite una rete di produttori familiari rurali e peri-urbani che in pratica si rendono disponibili a ospitare e allevare gli animali per conto della startup.Ma soprattutto c’è Jellyfish barge, piattaforma galleggiante in grado di produrre alimenti senza consumo di suolo, di acqua dolce e di energia chimica.
In pratica, una (piccola) soluzione per agricoltori alle prese con il climate change.
Jellyfish è una serra modulare galleggiante, energeticamente autonoma e in grado di produrre fino a 150 litri di acqua al giorno dissalando quella salata, salmastra o inquinata.
Al suo interno, un sistema di coltivazione idroponica regolato e monitorato automaticamente e gestito tramite controllo remoto garantisce un risparmio del 70% di acqua rispetto alle colture tradizionali mentre tutta l’energia necessaria è prodotta da pannelli fotovoltaici, mini turbine eoliche e da un sistema che sfrutta il moto ondoso per produrre elettricità.
La serra galleggiante Jellyfish. Credits: pnat.net
“L’idea è quella di arrivare a installare grandi arcipelaghi galleggianti per la produzione sostenibile di verdure fresche e a km zero – dice Camilla Pandolfi, ricercatrice dell’università di Firenze e referente del progetto sviluppato dalla start up universitaria Pnat srl – in tutte quelle zone costiere dove l’assenza di acqua dolce, o l’assenza di terre arabili rendono impossibili le produzioni locali. Per rendersi conto dell’impatto che il nostro progetto potrebbe avere basti pensare che più del 70% della popolazione mondiale vive a meno di 150 km dalle coste”.La medusa (jellyfish) sviluppata da un team multidisciplinare composto da architetti e agronomi guidati da Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale (LINV) dell’università di Firenze, ha già vinto diversi premi e promette importanti sviluppi nei prossimi anni.“Al momento Jellyfish Barge è prodotta con procedimenti semi-industruali, e quindi riusciamo a garantire installazioni costituite al massimo da una decina di moduli”, continua Pandolfi. “Questo tipo di installazioni sono rivolte a contesti di urban farming come ad esempio piccoli supermercati, ristoranti e bar. Abbiamo ricevuto l’interesse da parte di alcune grandi città costiere, ma per soddisfare le esigenze di mercato ed essere in grado di eseguire grandi piattaforme dobbiamo industrializzare la produzione. I primi due prototipi, cioè quelli attualmente esistenti, sono stati realizzati grazie al contributo di Regione Toscana ed Ente Cassa di Risparmio di Firenze, ma adesso stiamo cercando dei finanziatori che ci permettano di affrontare la fase di industrializzazione della produzione. Quando li avremo trovati saremo pronti per la prima installazione su larga scala, ovvero per istallare 120-150 moduli per creare un ettaro di coltivazioni nel giro di tre anni”.
La struttura, costruita con materiali a basso costo assemblati con tecnologie semplici, è composta da un basamento in legno di circa 70 mq che galleggia su fusti in plastica riciclati, e da una serra in vetro sorretta da una struttura in legno. L’acqua dolce viene ottenuta tramite distillazione solare, un fenomeno naturale (l’acqua del mare evapora continuamente, ricadendo poi sotto forma di pioggia) replicato in piccola scala attraverso i ‘tentacoli’ della medusa, che pescano acqua salata, la fanno evaporare al caldo della serra in cui viene poi condensata in fusti a contatto con la superficie fredda del mare.
Continuando a leggere il programma dell’Expo, scopro che il 2 settembre il CNR dedica una giornata internazionale di studi a Giantommaso Scarascia Mugnozza, scomparso pochi anni fa. “A chi?”, ho pensato per prima cosa.Poi ho scoperto che a questo geniale ricercatore e organizzatore si devono, tra le altre cose, fondamentali innovazioni nel campo della lotta integrata (quella che trovate orgogliosamente pubblicizzata sulle buste di molte insalate al supermercato, per intenderci, basata sulla riduzione dell’uso di fitofarmaci grazie al contrasto dei parassiti con metodi naturali), poi le prime applicazioni in campo della tecnica ‘dell’insetto sterile’ (che si basa sulla sterilizzazione dei maschi di una data popolazione di insetti per diminuire drasticamente il numero di nascite in quella popolazione senza ricorrere agli insetticidi) e la creazione della prima banca del germoplasma, in cui ancora oggi sono conservati i preziosi semi di migliaia di specie ad uso agricolo e non.Il nome di Scarascia Mugnozza è sconosciuto ai non addetti ai lavori. Ma le ricerche italiane condotte nei suoi anni hanno ispirato e ancora ispirano interi filoni di ricerca in tutto il mondo. Chissà che adesso non tocchi a Jellyfish barge, Foodwa e agli altri?
SCENARI
La Banca Mondiale stima per il 2050 una popolazione del pianeta vicina ai 10 miliardi di persone e una conseguente richiesta globale di cibo in aumento del 60-70% rispetto a oggi. Riuscire a soddisfare questo crescente bisogno di cibo in maniera ragionevole, senza incidere eccessivamente sulle risorse esistenti sembra essere al momento un obiettivo di difficile realizzazione, principalmente a causa della scarsità di acqua e di terreni disponibili per la coltivazione. Gran parte dei terreni potenzialmente coltivabili è concentrata in poche aree geografiche, mentre molte nazioni del Medio Oriente, Nord Africa e Asia del Sud, a elevata crescita demografica, hanno già raggiunto o sono prossimi a raggiungere i limiti della disponibilità di terra agricola.
L’agricoltura, utilizzando il 70% dell’acqua dolce del pianeta, è l’attività umana che pesa di più sulle risorse idriche esistenti.
In molte aree del mondo, come in India, Pakistan e nel sud della Spagna, il crescente fabbisogno di acqua a fini agricoli è soddisfatto dall’estrazione da riserve sotterranee, consumate a un ritmo più veloce di quanto le precipitazioni restituiscano. In diverse aree del Medio Oriente, invece, l’acqua è ottenuta con energivori processi industriali di dissalazione.
La scarsità di acqua e di terreni disponibili per l’agricoltura sarà verosimilmente aumentata dai cambiamenti climatici. L’innalzamento del livello del mare, per esempio, contribuirà all’inondazione con acqua salata di fasce sempre più estese di terra fertile. Questo fenomeno ha già iniziato a presentarsi con preoccupante frequenza in tutto il Golfo del Bengala.
ALESSANDRA VIOLA