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Così, nelle pagliare, ho scoperto i non-luoghi dell’innovazione

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Ho passato l’estate in montagna e ho scoperto delle aree magnifiche, nel cuore dell’Abruzzo, che non avrei potuto conoscere se non mi fossi gettato nell’esplorazione di questi “non-luoghi”. Li chiamo così per una serie di constatazioni. Spesso si tratta di posti remoti, persi nel nulla, fermi in un tempo che non può essere diverso da quello dell’esperienza che nutre la memoria personale. Non-luoghi che, il più delle volte, non fanno parte del dibattito sulla contemporaneità, ma che ogni giorno di più diventano importanti presidi per ripensare il mondo. Vediamo.

PAGLIARE D’ABRUZZO

All’interno del Parco del Sirente, sulla strada per Secinaro, dopo una lunga marcia per scalare la montagna si arriva alle Pagliare di Tione, costruzioni rettangolari in pietra calcarea a due piani, suddivise tra spazi superiori abitativi e spazi inferiori, utilizzati come stalle.

In un sito dedicato al posto trovo scritto:

Le pagliare sono costruzioni situate a circa 1000 metri negli altopiani sopra la valle dell’Aterno, ed utilizzate dai contadini e dai pastori della zona nel periodo estivo fino a cinquanta anni fa. Attestate già dal catasto di Tione dal XV secolo, le pagliare costituiscono una testimonianza eccezionale della cultura contadina della montagna abruzzese.

Se questa è la descrizione didascalica del luogo, dal punto di vista psicologico ed emotivo devo dire che mi sono sentito improvvisamente benissimo, carico ed entusiasta. Ho trovato un borgo strappato all’incuria e all’abbandono e completamente recuperato. Il pensiero ha cominciato a correre e, come spesso accade in quella naturale ricerca di altrove che ognuno di noi conserva dentro di sé, ho immaginato a come usare quel posto.

Non è solo una deformazione professionale quella del tentativo di costruzione di alternative possibili ai nostri stili di vita, ma è l’esigenza di sfuggire al ritmo nervoso ed eccessivamente pervasivo della città, che ci spinge a un esercizio estenuante di problem solving, lontano dalla calma e dalla lucidità necessari per la ricerca di una “cura”. Mi sono detto: sarebbe fantastico portare qui le persone che conosco e stare assieme qualche giorno per confrontarsi, discutere, progettare. Un pensiero che, ormai, si affaccia in modo sempre più raro nei miei giorni cittadini. Perché?

IL NODO DELLE CITTA’

Le città, oggi, rappresentano un nodo importante nell’elenco delle questioni da affrontare. L’inurbazione sfrenata degli ultimi anni e, al contempo, la difficoltà degli apparti amministrativi di trasformarsi sulle esigenze di comunità sempre più complesse e stratificate, costringe i temi delle Città Intelligenti e della Rigenerazione Urbana in un angolo da cui difficilmente, letteratura e accademia a parte, si riesce a uscire.

Le città, in questo momento storico, da motori di sviluppo sono diventati fattori frenanti, dominati da disordine e caos.

I Non-luoghi vivono grazie al riunirsi di conoscenze e competenze diverse in filiere temporanee

Eppure, a guardare bene, l’innovazione c’è, solo sta accadendo altrove. Mentre le città richiedono un immane sforzo di ricerca di momentanei equilibri e di soluzioni, spesso concentrati nell’esercizio virtuoso della politica locale, il territorio nazionale sta offrendo asilo nei suoi punti più remoti a organizzazioni informali, realtà (per citare l’intervento di Carlo Androgini su Fabric, Storie e visioni di contesti di cambiamento) con “forte aggregazione pluriprofessionale, caratterizzate da approcci collaborativi e criteri di partecipazione e dialogo con i propri interlocutori”. Sono Non-luoghi che vivono grazie al riunirsi di conoscenze e competenze diverse in filiere temporanee, alleanze rese possibili da azioni di scopo orientate al ripensamento dei processi politici, economici e sociali. Questo processo di delocalizzazione dei flussi dell’innovazione non si lega a un fenomeno comportamentale passeggero, ma è sempre più il risultato di un bisogno di capitalizzare il proprio impegno al di fuori delle finalità del lavoro (inteso come routine di quotidiana e meccanica sopravvivenza), per orientarlo su obiettivi concreti e immediatamente misurabili.

MAPPA DI UN’ALTRA ITALIA

Nasce così una mappa di un’altra Italia (quella, in fondo, che raccontano progetti come Italia che Cambia) in cui si verificano situazioni di sospensione, riflessione e azione finalizzati a disegnare nuovi strumenti e piattaforme di sistema. Non è un discorso che si lega alla nostalgia di un ritorno ai primordi, non è un pensiero che guarda necessariamente alla decrescita felice o all’esaltazione indiscussa del modello slow (senza negare il fascino di questi approcci) quanto, piuttosto, l’urgenza di costruire percorsi di senso, strettamente collegati ai problemi da risolvere che le politiche dei territori faticano a governare in prospettiva. In tal senso, per citare anche una volta Carlo, è davvero utile oggi la presenza “di particolari soggetti che si accollano la responsabilità di dare ritmo, stimolare, intuire”. Sono questi soggetti, veri e propri enzimi, a riattivare il tessuto della creatività, della conoscenza, della visione del progresso in ogni sua forma (socio culturale, scientifica, tecnologica).

ANDREA BARTOLI (FARM CULTURAL PARK FAVARA)

Ma come sono organizzati questi presidi? Ne ho parlato con Andrea Bartoli, fondatore del Farm Cultural Park di Favara.

Ci troviamo in un momento particolare. Nel dibattito sull’innovazione, si stanno affermando delle zone franche. Sono spesso luoghi remoti, distanti da tutto, dove si riuniscono diverse professionalità e competenze per parlare di futuro e cambiamento. Le città, invece, sono sempre più affogate da urgente d’altro tipo. Secondo te cosa sta accadendo, perché questo fenomeno?

Quattro anni fa, fui ospite del CITRAC IL Centro di Architettura Contemporanea di Trento. Arrivato a Trento, trovai una città bellissima, completamente ristrutturata, pulita, con i vigneti dentro la città. I nostri ospiti furono carinissimi, ci portarono a mangiare fuori a pranzo e poi ci accompagnarono in albergo per un riposino prima della presentazione. Ricordo che a quel punto dissi a mia moglie: “Ma cosa devo raccontare a questi signori, della nostra Favara sventrata che sembra Beirut?”. Per farla breve venne fuori una delle più belle presentazioni di Farm, così sentita che a distanza di meno di sei mesi generò un viaggio studio di 40 architetti di Trento a Favara. Viaggio studio, ti rendi conto? A distanza di anni mi sono potuto dare una sola risposta. Laddove vivi bene, hai uno stipendio o comunque riesci a lavorare, esistono degli interlocutori pubblici che garantiscono una ottima qualità della vita e sono pronti a sostenere ogni tua iniziativa, rischi di perdere mordente, voglia di fare, semplicemente ti adagi. Qui in Sicilia, al sud in genere, siamo affamati di riscatto, vogliamo per una volta essere i primi in qualcosa, ci siamo stancati di essere sempre ultimi in tutte le classifiche sulla qualità della vita, non ci sono altre alternative, o metti in azione delle politiche di ribellione allo status quo, all’ipocrisia della legalità, all’inesistenza di riferimenti pubblici, oppure ti pieghi al nichilismo. E’ una questione di vita o di morte, quanto meno spirituale. Certo Trento non è Roma, Milano, Napoli o Palermo; è una storia diversa. Ad ogni modo nelle grandi città hai comunque dei teatri, dei cinema, qualche museo, non senti il totale isolamento culturale come nella Provincia.

Sempre più di frequente, accanto a fenomeni di esaltazione di una decrescita felice, prendono spazio comunità di cambiamento che, lungi dal rinnegare il progresso e il nuovo che avanza, lavorano quotidianamente per produrre valore. Quale può essere il ruolo di progetti come Farm Cultura Park nella società contemporanea?

Il tema della decrescita felice mi affascina sempre tantissimo. Chi non vorrebbe ritirarsi in un pezzo di campagna, avere il proprio orto, essere connesso al mondo e periodicamente immettersi nella bolgia della società contemporanea. In teoria sembra facile, nella pratica, noi di Farm Cultural Park corriamo come se vivessimo a Times Square. Altro che decrescita. Ho un caro amico, Mario Carbone, che da sei anni ha mollato tutto e si è ritirato a Butera a fare permacultura. Una scelta consapevole di decrescita. Dopo alcuni anni arrivavano tutti i giorni alcuni volontari da tutto il mondo (cd. woofer), era molto bello ma occorreva andarli a prendere, cucinare con loro e per loro, assegnare compiti e coordinare le loro mansioni. Una scelta di decrescita stava diventando la gestione di una grande Onlus. Spero che l’esperienza di Farm possa avere una dimensione politica; Farm è la dimostrazione del totale fallimento di decenni di pensiero urbanistico, di piani regolatori generali mai approvati, di milioni di euro di finanziamento mal gestiti erogati al Mezzogiorno senza una visione, di procedimenti amministrativi e normative sanitarie ipocrite e impossibili, di politici, dirigenti e amministratori pubblici, talvolta anche istituzioni universitarie e scientifiche che hanno teorizzato tutto e il contrario di tutto senza mai produrre uno solo degli effetti desiderati. Farm in questi sei anni ha cambiato l’identità di Favara, è cambiata la percezione interna ed esterna; non c’è un pezzo di Centro Storico che non sia oggetto di trasformazione, nascono alberghi, b&b, spazi culturali, ristoranti e pizzerie. Una città che faceva turisti zero chiuderà questi quattro mesi estivi del 2016 con poco meno di 78mila presenze. Senza soldi pubblici, piani regolatori generali e minchiate varie ma semplicemente con una visione chiara delle strategie e azioni connesse e soprattutto con il coinvolgimento di una Comunità che ha deciso di essere parte di un sogno collettivo.

Filiere temporanee, connessioni aperte sul mondo, costruzione di reti. Come possono evolvere progetti come il vostro in un’azione sistemica di cambiamento del territorio?

La tua domanda contiene parte della risposta. Progetti come Farm nascono e crescono grazie a Filiere temporanee, connessioni aperte sul mondo, costruzione di reti. L’asset patrimoniale più importante di Farm, non sono gli immobili di proprietà ma proprio questa Comunità allargata sulla quale continuiamo tutti i giorni ad investire. L’unico nostro credo sino ad oggi è stato “unciti cu chiddi megghiu i tia e pizzici i spisi”, non abbiamo mai invitato potenti ma gente di valore; abbiamo imparato da loro, ci siamo ispirati alle loro buone pratiche, abbiamo seguito i loro consigli, abbiamo continuato a costruire valore insieme a loro. Adesso siamo in trattativa con un Fondo di Investimento; se questa operazione dovesse andare a buon fine, sarà molto importante non solo per il futuro di Farm ma anche per tutti coloro che operano in questo ambito; occorre far incontrare chi ha i capitali con chi produce impatti sociali. Non vedo altre strade, almeno fino a quando non mandiamo a casa la vecchia classe dirigente e non portiamo gente di valore a gestire il futuro del nostro Paese.

LA RESILIENZA

Andrea ha messo in risalto alcuni elementi molto importanti. La resilienza. Si tratta, spesso, di progetti di resistenza culturale a derive di abbandono e degrado, con l’ambizioso obiettivo di facilitare la trasformazione. Le filiere temporanee. Il più delle volte, parliamo di comunità aperte, strutture deboli (per dirla alla Granovetter) rispetto ai legami tradizionali di tipo clientelare, ma proprio per questo sane ed energicamente aperte alle connessioni e alle contaminazioni. Resta da stabilire in che modo si possa realmente stabilire il legame con il territorio che, depositario di una memoria culturale ben precisa, è l’ostacolo più difficile da superare. Nel bellissimo intervento di Marco Aime ne L’Arte della condivisione, si legge:

La metafora delle radici evoca una serie di elementi che finiscono per costituire la base di ideologie esclusiviste. Innanzi tutto perché, se presa letteralmente, ci dice che noi non potremmo essere altrimenti da ciò che siamo, che la nostra cultura e la nostra identità sono segnate fin dalla nascita.

E ancora:

La metafora delle radici rimanda a origini, pure e incontaminate, che attribuiscono ogni espressione culturale di una società a quella stessa società, escludendo ogni influenza e contaminazione.

Queste parole ci fanno riflettere sul futuro, su quanto sia importante riscoprire le nostre eredità culturali andando avanti nella trasformazione delle interpretazioni in rapporto alle esigenze più forti della società contemporanea.

ROBERTO COVOLO (EX FADDA)

Ho chiesto a Roberto Covolo, che da anni lavora nell’innovazione sociale e che, attualmente, si sta dedicando al progetto di Ex Fadda, un parere.

Alcuni territori hanno identità forti. Senza dubbio si tratta di retaggi la cui conservazione ha un oggettivo valore storico e culturale, ma possono anche diventare dei confini sul mondo, dei muri invalicabili. Tu lavori su Ex Fadda. In che misura il vostro progetto è condizionato o, per dirla meglio, legato al territorio?

ExFadda (www.exfadda.it) non esiste senza San Vito dei Normanni, non ha senso senza la sua comunità. Dal principio abbiamo immaginato un percorso che avesse nel coinvolgimento dei cittadini – specie i più giovani – il punto di leva per avviare il riuso dell’ex stabilimento. C’è un motto che in questi anni è andato assai di moda nel dibattito dello sviluppo locale: “Pensare globalmente e agire localmente”. Noi abbiamo provato ad invertire l’ordine degli addendi: “Pensare localmente e agire globalmente”. Questo significa non vergognarsi di quello che siamo (una piccola comunità del Sud italia distante dai flussi principali di beni e di persone) ma al contrario valorizzare le risorse inespresse del territorio per farne prototipi progettuali e ipotesi di sviluppo locale da proporre a tutto il mondo. Così sono nate e si sono sviluppate numerose idee che oggi abitano gli spazi dell’ExFadda: la World Music Academy, un centro di formazione e produzione di livello nazionale che parte dalla valorizzazione del patrimonio di musica popolare di San Vito dei Normanni; La Manta, un progetto che mette insieme designer e artigiane locali per realizzare prodotti che recuperano la tradizione del lavoro a maglia, ma con gusto contemporaneo; XfOTO, un collettivo di fotografi e videomaker che racconta le imprese e le associazioni del territorio; e così via.

Mi sembra che, nonostante la retorica sulla necessità di costruire spazi a misura delle nuove generazioni, il vostro interesse sia piuttosto di realizzare una cultura dell’educazione alle opportunità del territorio. Non è detto, quindi, che sia necessario rottamare il passato per costruire le strade del progresso. Quali azioni concrete state realizzando con Ex Fadda?

ExFadda è una specie luogo dove proviamo a trasformare le idee in progetti concreti. Da noi non impari a fare un business plan o un’analisi di mercato dai manuali, ma attraverso l’attivazione e la diretta esperienza entri in contatto con le tue vocazioni e con il mondo. Siamo una specie di incubatore di comunità che offre una opportunità di attivazione a chi decide di salire a bordo, aprendo al tempo stesso uno spazio di confronto pubblico sul futuro del patrimonio immobiliare pubblico dismesso o in disuso nelle nostre comunità. Cerchiamo al tempo stesso di rendere sostenibile la nostra avventura, cercando di tenere insieme dinamiche imprenditoriale – gli strumenti tipici dell’impresa – ma non le finalità: il nostro obiettivo non è massimizzare il profitto, ma aumentare le opportunità per il territorio e promuovere il bene comune. Così è nato XFOOD, il nostro ristorante sociale: dalla riconversione delle vecchie stalle dello stabilimento è nato un luogo dove ragazzi e ragazze con disabilità imparano un mestiere e lo mettono in pratica tra i fornelli in cucina e tra i tavoli in sala (www.ristorantexfood.com).

Andrea Bartoli ha parlato di filiere temporanee e di connessioni aperte. Io, però, continuo a pensare che per ottenere un reale cambiamento l’azione debba diventare una funzione sistemica, una infrastruttura aperta, ma solida. È possibile costruire reti di attivatori sul territorio che lavori insieme?

È una questione che ci siamo posti spesso, nei dibattiti sull’innovazione sociale e nelle occasioni informali di incontro. Molte reti sono nate in questi anni intorno a questioni specifiche o per raggiungere obiettivi particolari. Io credo che non dobbiamo essere ossessionati dall’idea di “metterci a sistema” ma dobbiamo provare invece a moltiplicare gli scambi e le conversazioni tra simili. Andare, ospitare, far circuitare. Il cambiamento non è una questione che riguarda solo noi, d’altronde. Con noi intendo la comunità di attivatori che condivide approcci e metodi di lavoro alla quale alludi. Per cambiare dobbiamo avere dalla nostra parte i cittadini, i giovani disoccupati, i lavoratori, gli insegnanti, le mamme, i professionisti: ne abbiamo di strada da fare, guai a sentirci un’avanguardia. La cosa migliore che possiamo fare, per ora, è renderci utili ad “allargare il giro”, a permettere a sempre più persone di partecipare allo spazio pubblico e di porsi le domande giuste.

IL BANCO DI PROVA DELL’INNOVAZIONE

Come testimoniano questi interventi, se oggi il banco di prova è trovare la forma per un dialogo costruttivo tra l’identità culturale di un territorio e la sua rinascita in termini di apertura al progresso (senza alcun sospetto nei confronti della tecnologia, che non deve mai venire vista come nemica), è pur vero che abbiamo sempre più bisogno di attivare luoghi e costruire percorsi. Alcune filiere si formano in modo temporaneo, ma non sono in disaccordo con l’idea di costruire un sistema, anche flessibile di connessioni. Il fenomeno, in tutta la sua complessità, è da inquadrare in quello che Bauman ha definito desiderio di comunità prende varie forme, come ricorda nel suo ultimissimo articolo per Che Fare Aldo Bonomi.

La comunità del rancore rifiuta l’apertura e il cambiamento così come la comunità di cura sviluppa cultura della prossimità e dello scambio.

Noi che lavoriamo nell’innovazione crediamo in una società a venire diversa; crediamo nell’accelerazione perché siamo convinti che, per citare di nuovo Bonomi, in noi non c’è che futuro. Per questo, è diventato importante collaborare per la continua edificazione di non luoghi che funzionino come propulsori di riflessione e confronto. Possono diventarlo un centro culturale, un coworking, uno hub, ma anche un Festival, un evento, un qualcosa che temporaneamente o stabilmente entra nella possibile geografia del cambiamento, tanto da catalizzare l’attenzione e favorire il coinvolgimento del capitale umano.

Luoghi preposti allo studio e sperimentazione delle soluzioni. Non c’è assolutamente bisogno di fughe e di scelte da anacoreta, non serve lo sguardo sognante verso un altrove che non verrà. L’obiettivo, per noi resilienti in Italia, è costruire solide alternative.

DAVIDE PELLEGRINI

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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