in

Cyberteologia, etica «hacker» e visione cristiana

innovaizone

Tecnologia e Cristianesimo potrebbero sembrare mondi lontani l’uno dall’altro, eppure basta leggere il libro Cyberteologia di Antonio Spadaro, gesuita, direttore della rivista «La Civiltà Cattolica» e consultore di due Pontifici Consigli: della Cultura e delle Comunicazioni, per capire che la sfida, dunque, non è come ‘usare’ bene la Rete, ma come ‘vivere’ bene al tempo della Rete.

Padre Spadaro è convinto che motori di ricerca, smartphone, applicazioni, social network sono entrati prepotentemente nella nostra vita quotidiana cambiando di fatto il nostro modo di vivere. Ciò influenza anche la nostra spiritualità ed il rapporto con la religione. Le nuove tecnologie non sono solo strumenti, da usare per semplificare la comunicazione e il rapporto con il mondo.Piuttosto disegnano uno spazio antropologico nuovo che sta cambiando il nostro modo di pensare, di conoscere la realtà e di intrattenere le relazioni umane.

A Padre Spadaro ho fatto alcune domande per indagare il rapporto complesso tra tecnologia e spiritualità.

All’inizio del suo libro si chiede se Internet sta cambiando il nostro modo di pensare: quale è il suo punto di vista?

Internet è una realtà che ormai fa parte della vita quotidiana. Se fino a qualche tempo fa la Rete era legata all’immagine di qualcosa di «freddo», di tecnico, che richiedeva competenze specifiche, oggi è un luogo da frequentare per stare in contatto con gli amici che abitano lontano, per leggere le notizie, per comprare un libro o prenotare un viaggio, per condividere interessi e idee. E questo anche in mobilità grazie a quelli che una volta si chiamavano «cellulari» e che oggi sono veri e propri computer da tasca.

Andrew Blum ha scritto un volume dal titolo “Tubes: A Journey to the Center of the Internet“. La sostanza del discorso è una domanda: che cos’è internet? Blum dunque si concentra sulla “fisicità” della Rete che spesso perdiamo di vista o non consideriamo. Il rischio però è quello di considerare internet come una commodity alla stregua della rete idrica o quella elettrica, considerandolo solo uno strumento ed identificando la “realtà” e l’esperienza di internet con l’infrastruttura tecnologica che la rende possibile.

Internet è innanzitutto un’esperienza che sempre di più sta diventando parte integrante, della vita quotidiana: un nuovo contesto esistenziale o, meglio ancora, una sorta di tessuto connettivo della nostra esperienza del mondo. Per questo necessariamente comincia a incidere sulla capacità di vivere e pensare.

Dal suo influsso dipende in qualche modo la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo che ci circonda e di quello che ancora non conosciamo.

In realtà, l’uomo ha sempre cercato di capire la realtà attraverso le tecnologie. Pensiamo a come la fotografia e il cinema hanno mutato il modo di rappresentare le cose e gli eventi; l’aereo ci ha fatto comprendere il mondo in maniera diversa del carro con le ruote; la stampa ci ha fatto comprendere la cultura in maniera diversa. E così via.

La «tecnologia» non è un insieme di oggetti moderni e all’avanguardia: è parte dell’agire con il quale l’uomo esercita la propria capacità di conoscenza, di libertà e di responsabilità.

Mai un tempo si sarebbe immaginato di poter assistere alla canonizzazione di massa dell’amministratore delegato di una azienda che produce macchine (Steve Jobs). Se questo è avvenuto è perché queste «macchine» sono sempre meno «macchinose» e sempre di più stanno assumendo un valore che tocca le dimensioni dell’uomo più elevate: pensare, esprimersi, comunicare, capire il mondo.

In che misura cambia anche il modo di essere cristiani al tempo del Web?

Nel lontano 1964 Paolo VI in un suo discorso aveva usato parole che sono per me di una bellezza sconcertante: «La scienza e la tecnica ci fanno intravedere nuovi misteri: il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale. Lo sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali è innalzato ad un servizio che tocca il sacro».

La tecnologia diventa uno dei modi ordinari che l’uomo ha a disposizione per esprimere la sua naturale spiritualità. Anzi le nuove tecnologie, ha scritto Benedetto XVI nel suo 45 Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano».

Nel suo libro fa un parallelo tra etica hacker e visione cristiana; davvero sono mondi così vicini?

Il termine hacker individua una figura molto più complessa e costruttiva che si è formata a partire dalla fine degli anni ’60 e negli anni ’70, legata alle evoluzioni dell’informatica. Hacker è chi si impegna nell’affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti d’interesse.

Pekka Himanen nel suo fondamentale “L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione” articola una profonda critica contro un certo modo di intendere l’esistenza tutto sbilanciato sul lavoro ottimizzato, legato all’orologio e alla performance, all’efficienza. Propone in alternativa una visione del lavoro umano più ludico e creativo, una «sabatizzazione del venerdì» .

Se questo modello biblico non viene privato del suo profondo valore teologico allora è capace di mantenere la memoria di un inizio che è frutto di un atto creativo di Dio.

Il fatto che la cultura hacker sia compatibile in radice con la visione cristiana del mondo lo si capisce poi proprio dall’esperienza vissuta degli stessi hacker. Il ben noto linguaggio di programmazione Perl, creato nel 1987 dall’hacker Larry Wall, cristiano evangelico, è sì, l’acronimo di Practical Extraction and Report Language ma in origine si chiamava Pearl e deve il suo nome alla «perla di gran valore» (Mt. 13, 46) trovata la quale un mercante vende tutto pur di comprarla. Wall, oltre a dare nomi quali bless (benedire) apocalypse ed exegesis a funzioni del suo linguaggio, spesso, parlando in conferenze e congressi fa riferimento alla sua fede cristiana.

L’Homebrew Computer Club era un’associazione di ingegneri, ricercatori e tecnici accomunati dal sogno di rendere l’informatica un’abitudine popolare e di costruire un nuovo e rivoluzionario prototipo di computer. Uno dei suoi membri fu Tom Pittman, uno dei primi «filosofi» hacker. Nel suo manifesto “Deus ex machina, or the true computerist“ interpreta questa azione come una partecipazione emotiva al lavoro creativo di Dio, un lavoro che sviluppa interesse, passione, curiosità, che mette in moto le capacità di chi lo compie non avvilendolo. L’hacker è sostanzialmente un creativo sempre in ricerca. Come cristiano Pittman vive e interpreta il suo gesto creativo come una forma di partecipazione al «lavoro» di Dio nella creazione.

Che cosa e’ la chiesa “liquida”?

Oggi viviamo riferimenti territoriali ‘liquidi’ che finiscono per compromettere una relazionalità realmente significativa. Pensiamo alle ‘chiese’ generate dai telepredicatori, che producono una pratica religiosa individuale, che conferma l’esasperata privatizzazione degli scopi della vita e l’individualismo estremo della società dei consumi capitalistica, per il quale vale il motto «ciascuno per sé e Dio per tutti». E’ interessante notare il successo dei siti di spiritualità diffusa, svincolata da qualunque forma di mediazione storica e comunitaria, tendente a includere tutti i valori religiosi unicamente nella coscienza individuale.

Del resto fatta un’esperienza, inclusa quella religiosa, oggi si crede che si possa tornare indietro sempre e comunque: essa si riduce a semplice ‘esperimento’. La simulazione batte il reale per la sua più ampia potenzialità e il suo basso livello di rischio e compromissione. Il problema vero è dunque dato dalla riduzione della realtà a una sua rappresentazione manipolabile e reversibile: i rapporti evaporano e con essi ogni forma di relazione reale con ciò che è altro da me e va al di là dei miei desideri o dei miei timori. Tutto questo, a mio parere, è il frutto di un dualismo digitale, del considerare la Rete come un mondo parallelo.

E invece la Rete è destinata sempre di più a essere non un mondo parallelo e distinto rispetto alla realtà di tutti i giorni, quella dei contatti diretti: le due dimensioni, quella online e quella offline, sono chiamate ad armonizzarsi e a integrarsi quanto più è possibile in una vita di relazioni piene e sincere. La Chiesa non è né liquida né solida né gassosa. E’ umana.

Uno dei compiti della Chiesa è di essere vicina ai suoi fedeli, in che modo assolve questo compito utilizzando le nuove tecnologie? Puoi raccontarmi casi concreti?

Bisognerebbe correggere la domanda, credo. La Chiesa non è chiamata ad essere vicina ai suoi fedeli perché sono i fedeli stessi che compongono la Chiesa. Il pensiero della Chiesa non usa più da alcuni anni il termine “strumento” preferendo quello di “ambiente”, specialmente se si parla di digitale. Diciamo che semplicemente i cristiani stanno imparando a vivere nell’ambiente digitale o, ancor meglio, a considerare la rete come un tessuto connettivo delle esperienze ordinarie. La questione non è quella di “usare bene” la rete, ma quella di “vivere bene” al tempo della rete. Dunque cresce l’espressione del cristiani sui social networks e non a caso pochi giorni fa Benedetto XVI ha scelto il seguente tema della 47a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

La Chiesa rappresenta da sempre la storia e la conservazione, come può rinnovarsi al tempo del WEB?

La Chiesa rappresenta la storia nel senso che ci vive dentro e la testimonia. Il fatto che “rappresenti la conservazione” è sostanzialmente un “preconcetto stilistico”. Il tempo del web non è per l’uomo in generale (e dunque neanche per la Chiesa) un semplice tempo di “rinnovamento”. Semmai io porrei la questione in un altro modo, frullando i termini della domanda. E cioè: come può la Chiesa, proprio grazie alla sua esperienza bimillenaria, col suo “tesoro” di storia e tradizione e pensiero, aiutare la rete ad essere se stessa? Questa è la vera domanda teologica. Un esempio al volo: il concetto di “testimonianza” è l’unico che dà veramente senso umano all’esperienza dello “user generated content”, che altrimenti sarebbe da intendere solo in maniera commerciale. E’ il concetto di “contemplazione vedendo il luogo” degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola che fa capire come interiorizzazione e interattività non sono affatto opposti e che l’interattività non è pura superficialità. E’ la sapienza dei Padri del deserto che fanno capire l’importanza della brevità di una comunicazione di 140 caratteri via twitter.

Donna Haraway autrice del “Cyborg Manifesto“, pur avendo perso la fede, riconduce le basi della sua teoria dall’educazione cattolica ricevuta, affermando: «Il simbolismo e il sacramentalismo cattolici, le dottrine dell’incarnazione e della transustanziazione hanno profondamente influenzato la mia formazione». Ha ragione. Mi vado convincendo – e ho provato a dimostrarlo nel mio libro “Cyberteologia”, appunto – che per parlare di internet e della realtà al tempo della Rete non si può che usare un linguaggio teologico.

Chiaramente il sacramento è un segno visibile ed efficace della grazia: non genera solamente informazione. Ma l’intuizione della Haraway, sebbene opinabile e problematica nei suoi esiti, parte dall’intuizione giusta: è il concetto di sacramento che può davvero aiutarci a capire la realtà al tempo dei media digitali. Soprattutto perché non ammette dualismi. La profetica complessità di Pierre Teilhard de Chardin aveva intuito il necessario crollo del dualismo, ad esempio, in un passaggio per certi versi sconcertante del suo “L’energia umana” quando afferma: «Ogni passo avanti realizzato dall’Uomo nella meccanizzazione del Mondo travalica il piano della Materia. Si aggiunge infatti alle nuove possibilità che nascono dai perfezionamenti arrecati alla materia organizzata per determinare nell’individuo un accrescimento dell’energia spirituale».

La cultura e la filosofia di Padre Spadaro mi hanno aperto la mente illuminandola di una luce con cui rileggere la tecnologia e l’applicazione di essa nel mondo reale. L’innovazione non è una cosa a se stante, l’innovazione è nelle cose e negli uomini e quindi sempre tra di noi cosi come Cristo.

Antonio Savarese

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

What do you think?

Scritto da chef

innovaizone

Donne, ecco il percorso che fa volare in alto le ambizioni

innovaizone

Budrio, che (alle Paralimpiadi) porta l’eccellenza delle protesi