Da Tunisi a Montecitorio, i 10 anni che ci hanno portato alla Carta dei diritti di Internet

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Non si potrà mai capire l’esigenza di una Carta dei diritti di Internet se non si comprendono i rischi che la rete corre ogni giorno. E noi con lei. Questi rischi sono l’esclusione di larghe fasce di popolazione dal suo utilizzo – il suo capitale sociale -, il controllo delle sue comunicazioni da parte di soggetti non autorizzati, attacchi, sabotaggi, sovraccarico e malfunzionamenti, ma anche la frammentazione delle reti geografiche che la compongono e l’osbolescenza delle tecnologie e dei protocolli che la fanno funzionare.In una parola, il “rischio” di Internet è l’assenza di una governance della rete in grado di affrontare questi problemi, ogni giorno.

“Governance? Ma di che parli? Noi non vogliamo che la rete sia governata!”

Governance non significa Government.

Governare la rete vuol dire salvaguardare le caratteristiche di accessibilità, apertura e neutralità che le hanno permesso di diventare una piattaforma di scambi globali.

Per dirla con il giurista Stefano Rodotà: «governare la rete significa salvaguardare il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto». Uno spazio che ha permesso la più massiccia redistribuzione del potere dall’alto verso il basso, cioè verso i cittadini.

La rete è già governata. Ed è governata da un complesso sistema di attori che va dagli ingegneri dell’IEETF, a quelli del W3C, che stabiliscono gli standard del web, fino all’Internet Society che si occupa del suo utilizzo ed evoluzione, per finire coi governi nazionali che ne stabiliscono le forme d’uso, insieme a ITU e WTO, per non parlare delle scelte dei carrier telefonici nazionali le cui decisioni tecniche decidono la qualità e i limiti del servizio per l’utente finale della rete.

Chiaro no? Quindi la “governance” non riguarda le scelte che fanno i governi circa l’uso della rete per i propri cittadini, ma l’insieme di procedure negoziate tra gli attori che ne gestiscono manutenzione ed evoluzione.

Per essere più chiari, la Governance di Internet riguarda esattamente «lo sviluppo e l’applicazione da parte dei governi, del settore privato e della società civile, nei loro rispettivi ruoli, di principi, norme, regole, procedure decisionali e programmi condivisi che influenzano l’evoluzione e l’uso di Internet». L’Internet Bill of Rights, o Carta dei diritti di Internet, serve proprio a questo, a stabilire regole condivise di funzionamento della rete con la partecipazione di tutti gli “stakeholder”, cioè i portatori d’interesse: singoli, associazioni, imprese, governi, entità sovranazionali.

DA TUNISI ALLE PRIMAVERE ARABE, IL LUNGO CAMMINO “INTERNET BILL OF RIGHTS”

Partiamo dall’inizio.

Quando si cominiciò a parlare di una “Costituzione per la rete”, ispirata ai principi delle grandi costituzioni moderne, eravamo a Tunisi. L’anno era il 2005 e dopo una serie di incontri a Ginevra, la diplomazia internazionale aveva deciso di portare in Nord Africa la discussione sui Millenium Goals, gli obiettivi del Millennio, per sviluppare il potenziale dell’umanità usando le nuove tecnologie della comunicazione. Non era un caso, visto che la Tunisia era governata da un raìs filoccidentale che teneva sotto il tacco l’opposizione interna ed aveva dichiarato guerra a giornalisti, avvocati, difensori dei diritti civili.

L’arrivo delle delegazioni internazionali fu funestata da aggressioni, botte e arresti perfino nei confronti dei cronisti di Reporters senza frontiere.

L’idea però era di smuovere la società civile africana e condividere con loro le best practice della comunità internazionale. In pochi anni quella società si è organizzata ed ha dato vita alle rivolte della primavera araba, sostenute, guarda un po’, da un uso innovativo di Internet come piattaforma di discussione e mobilitazione, capeggiate in Egitto da un ingegnere di Google.

Ma non divaghiamo. Nel 2005 a Tunisi un gruppo di italiani, ospitati presso Casa Italia, lanciarono la dichiarazione Tunisi Mon Amour, l’embrione della Carta dei diritti: erano Stefano Rodotà, Fiorello Cortiana e altri, ma all’appello si associarono da subito anche personalità del mondo della cultura, dell’Accademia, del software come Gilberto Gil, Lawrence Lessig, Richard Stallman. C’era anche chi scrive. La dichiarazione mirava «ad affermare alcuni principi come parte della nuova cittadinanza planetaria: libertà di accesso, libertà di utilizzazione, diritto alla conoscenza, rispetto della privacy, riconoscimento di nuovi beni comuni». L’idea portante della Carta era di impedire che le alleanze tra grandi imprese e stati autoritari imponesse nuove forme di censura trasformando Internet in uno strumento per “controllare meglio i milioni di persone che se ne servono, per impadronirsi di dati personali contro la volontà degli interessati, per chiudere in recinti proprietari le nuove forme della conoscenza.”

La Carta dei diritti di Internet ribadiva un principio messo successivamente a dura prova dal Datagate, dalla repressione degli attivisti arabi dopo le abortite primavere, dalla censure di Youtube e Twitter prima in Cina e poi in Turchia, fino al caso Hacking Team, e cioè che «solo il pieno rispetto di principi costituzionali consentirà di trovare il giusto equilibrio democratico con le esigenze della sicurezza, del mercato, della proprietà intellettuale».

GLI INTERNET GOVERNANCE FORUM E I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL WEB

Kofi Annan a Tunisi decise di avviare gli Internet Governance Forum, assemblee mondiali annuali dove fare incontrare gli stakeholder della rete per discutere di come mettere Internet al servizio della pace, dello sviluppo della democrazia. Tunisi Mon Amour fu fatta propria da una dynamic coalition internazionale e l’anno dopo all’IGF di Atene fu discussa e predisposta la bozza che nel 2007 divenne un accordo bilaterale tra Italia e Brasile. In questo accordo i diritti da riconoscere agli utenti della rete erano: il rispetto del multiculturalismo, del multilinguismo e delle differenze di genere, l’interoperabilità di software e protocolli, la protezione dell’anonimato e della privacy contro la censura, la salvaguardia della neutralità della rete, la sicurezza da virus e malware, l’accesso incondizionato e libero per tutti alla grande piattaforma globale.Negli IGF successivi questi principi non sono cambiati di molto, ma i temi della dichiarazione per i diritti sono esondati verso gli stati nazionali che oggi in circa 80 discutono ognuno della propria Carta dei diritti di Internet con la sfida di far convergere a livello planetario e sotto l’egida delle Nazioni Unite le riflessioni e le decisioni che la riguardano.

PERCHE’ ARRIVIAMO TARDI E COSA DICE LA NOSTRA CARTA DI INTERNET

L’Italia, nonostante abbia dato per prima l’impulso a questa piccola grande, rivoluzione, arriva un po’ dopo a discuterne nel luogo sovrano della volontà popolare, il Parlamento. E questo per una serie di ragioni: il fallimento della proposte del governo Berlusconi portate dal ministro competente dell’epoca, Renato Brunetta, la breve stagione del governo Monti quando il ministro della cultura Profumo ne mise in consultazione una versione rivisitata e corretta, l’indifferenza al tema del governo condotto da Enrico Letta.Con il governo Renzi, finalmente la presidente della Camera Laura Boldrini ha preso in mano la situazione, ha organizzato una commissione con a capo il giurista Stefano Rodotà e avviato una consultazione pubblica e una serie di audizioni per definire i diritti della rete a favore dei cittadini italiani da portare in ambito internazionale.

La Carta italiana contempla i diritti di cui si è discusso negli ultimi dieci anni: e cioè il diritto all’accesso, alla tutela dei dati personali, all’anonimato, alla produzione e diffusione di cultura e conoscenza in rete, all’interoperabilità di strumenti e piattaforme, fino alla net neutrality. Con una differenza rilevante rispetto alle altre proposte: quella di trattare il diritto di accesso alla rete come un diritto umano fondamentale.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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