Qualche settimana fa Luca Ricolfi su La Stampa ha pubblicato un’interessante ricerca sugli stipendi degli italiani.
Tale ricerca mostra come la pressione fiscale sui salari pone il nostro Paese al 30° posto sui 32 paesi considerati, ma mostra anche che il costo medio per dipendente in Italia è più basso di quello sostenuto in tutti gli altri paesi con i quali ci vorremmo confrontare (14° posto).
In altri termini, il basso livello degli stipendi italiani dipende molto dall’ elevatissimo carico fiscale, ma anche in assenza di tale zavorra i nostri salari sarebbero comunque relativamente bassi. Osservando come la perdurante crisi delle nostre imprese indichi come queste non riescano più a permettersi neanche tale basso livello del costo del lavoro, Ricolfi conclude che una parte del problema deve essere legata alla bassa capacità di creare valore aggiunto rispetto agli input produttivi.
Personalmente condivido pienamente la conclusione di Ricolfi per il settore di mercato che meglio conosco, quello dell’ICT.
Parlo per esperienza diretta: alla fine degli anni ‘90 lavoravo in un piccola software house e nel fare le stime dei progetti quotavamo il personale ad una media di oltre 500 Euro al giorno (il vecchio milione di lire). Oggi tale media è un’utopia per moltissime aziende del settore, eppure in questi ultimi 15 anni il ruolo strategico dell’ICT è cresciuto, mentre inflazione ed ingresso nell’Euro non hanno certamente reso più forte il potere di acquisto dei salari.
Che cosa è successo?
La risposta a tale domanda richiede l’esame di molti aspetti tra cui, a mio modo di vedere, ce n’è uno che difficilmente vedo dibattuto sui media e che definirei il vero e proprio cancro dell’ICT italiana: il cosiddetto “manpower”, ovvero il ricorso a personale esterno per l’esecuzione di alcune attività produttive non strategiche.
Il manpower italiano nell’ICT ha una lunga storia, ma è solo nella seconda metà degli anni ’90 che inizia il suo processo degenerativo che ha portato in breve tempo a trasformare un settore di punta in una vera e propria giungla del malaffare e dalla bassa qualità.
In quel periodo, infatti, i grandi gruppi industriali italiani, trascinati dalla crescita vertiginosa del settore delle telecomunicazioni, iniziano ad essere consci dell’importanza strategica di avere nuovi ed efficienti sistemi ICT e iniziano a richiedere a fornitori specializzati la progettazione, lo sviluppo e l’integrazione di tali nuovi sistemi.
Si trattava di una magnifica opportunità di rinnovamento del Paese che però fu mancata essenzialmente per la scarsa qualità dei dirigenti che nei grandi gruppi avrebbero dovuto fungere il ruolo di committenti.
La lentezza con la quale l’università italiana si era resa conto della nascita dell’ingegneria informatica, infatti, aveva portato nel corso degli anni ’80 ad occuparsi di software i laureati in un ampio spettro di facoltà tecnico-scientifiche.
Tali laureati avevano maturato le loro esperienze principalmente nello sviluppo di procedure gestionali, sugli ambienti chiusi dei mainframe e con linguaggi come il COBOL e il Fortran.
Si trattava di persone con background che, non aggiornatisi nel corso del tempo, le rendevano spesso incapaci di comprendere appieno i cambiamenti e le innovazioni che stavano avvenendo a grande velocità nel mondo dell’ICT.
A questa deficienza culturale si andava a sommare il fatto che il complessivo stato di buona salute delle imprese, in un mondo non ancora globalizzato, rendeva le carriere nelle grandi aziende italiane guidate più dalle capacità relazionali che dalla competenza tecnico-manageriale.
La incapacità di questa classe di dirigenti di gestire in modo efficiente le strategie di ICT outsourcing portò rapidamente alle manifestazioni di vendor lock-in, cioè a far disegnare interi sistemi mission critical a dei fornitori che a loro volta usavano tali progetti per diventare di fatto gli unici specialisti in grado di intervenire su tali sistemi.
Come era immaginabile, il vendor lock-in si tradusse in una crescita dei costi progettuali non strettamente legata alla loro complessità tecnica, ma al fatto che i fornitori potevano, in una certa misura, sfruttare la loro rendita di posizione per alzare artificiosamente i prezzi.
La crescita dei costi di outsourcing e i fenomeni di dipendenza da alcuni fornitori, indussero le grandi aziende a ritenere che la soluzione del problema potesse risiedere nel separare la fase di progettazione dei sistemi dal loro effettivo sviluppo.
Ciò portò a considerare come una opzione concretamente perseguibile quella di comprare la sola forza lavoro necessaria a sviluppare il software descritto nei documenti di progettazione che altri avrebbero preparato.
Iniziarono così ad aumentare le richieste di manpower, di sviluppatori, cioè, che dovevano fisicamente recarsi a lavorare presso i clienti stessi, sviluppando codice “alla cieca”, sulla base delle indicazioni ricevute.
Era l’inizio della fine: scollegando il design dal coding iniziò a passare l’idea che lo sviluppo del software fosse una commodity e come tale dovesse essere pagata.
A quel punto era solo questione di tempo prima che le tariffe orarie iniziassero a scendere in picchiata. E l’occasione fu presto data dallo scoppio della bolla speculativa della “new economy” che aveva portato alla nascita del Numtel e alla folle asta sulle frequenze UMTS. Improvvisamente gli operatori di telecomunicazione, che avevano guidato lo sviluppo dell’ICT del Paese, ridussero in modo consistente i loro investimenti in nuovi sviluppi, ed iniziarono ad arrivare ripetutamente ai fornitori messaggi come “anche quest’anno le tariffe orarie verranno tagliate del 20%” (la cosa da sola meriterebbe un trattato sul livello di preparazione manageriale della classe dirigente che le aveva partorite).
Di fronte all’affermarsi del concetto di sviluppo software come una commodity i fornitori non riuscirono, colpevolmente, a trovare una risposta industriale.
Apparentemente incapaci di capire non solo il carattere depressivo di lungo periodo di tale impostazione, ma anche di leggere in modo corretto i grandi cambiamenti che stavano avvenendo nel mondo globalizzato, cercarono una risposta essenzialmente attraverso la costituzione di un forte business delle relazioni. In estrema sintesi, accettarono drastiche riduzioni nelle tariffe in cambio di accordi sul numero di persone che sarebbero state impiegate, indipendentemente dalla loro effettiva qualifica e infatti in poco tempo si iniziò a parlare di “body rental”.
I danni del manpower divenuto body rental sono incalcolabili e sarebbe certamente troppo lungo discuterli con completezza in questo post. Per dare al lettore un’idea della gravità della situazione mi limiterò a raccontare un fatto realmente accadutomi.
Un paio di anni fa venni avvicinato dal fornitore di body rental per una grande azienda italiana. Mi chiese se conoscevo qualcuno che potesse fornirgli una decina di persone con un profilo medio-alto. Dissi che potevo verificare e chiesi qual era la tariffa giornaliera prevista. Mi rispose 150 Euro al giorno per un contratto di 12 mesi. Rimasi interdetto: 150 Euro al giorno fanno un ricavo lordo per il fornitore di circa 30.000 Euro l’anno.
Anche senza considerare i rischi, gli endemici ritardi nei pagamenti e il guadagno dell’azienda, si tratta di una cifra ampiamente insufficiente per pagare uno stipendio ad uno sviluppatore junior, figurarsi ad un profilo medio-alto!
Chiesi come fosse possibile una cosa del genere. La risposta fu per certi versi illuminante: aveva un dirigente “amico” presso il cliente, che gli garantiva ogni anno l’affitto di 30 persone. L’effettiva attività di tali persone era un dettaglio del tutto trascurabile. L’unica cosa rilevante era poter dire che tali persone avessero un profilo medio-alto, indipendentemente dal fatto che tali profili rispondessero a verità.
Per poter far fronte a tale richiesta, il fornitore inviava presso il cliente un bravo progettista software (che pagava 250 Euro al giorno) e 29 “figuranti”, cioè 29 persone pagate ciascuna 60 Euro al giorno il cui unico scopo era far presenza, venendo utilizzate solo per mandare mail, fare fotocopie, partecipare in silenzio a meeting, eseguire “test scimmia” e così via.
Il team veniva completato da due bravi sviluppatori siberiani (80 Euro al giorno) che, da remoto, effettivamente sviluppavano il codice sulla base delle indicazioni dell’unico progettista.
Complessivamente il fornitore aveva un guadagno di oltre 2300 Euro al giorno che, in parte, se ne andavano in regali “all’amico”, a suo dire soddisfattissimo della qualità del lavoro svolto dal suo fornitore e preso a modello dai suoi colleghi della grande azienda.
Augusto Coppola