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Dalla prima TAC al filo chirurgico che si fa il nodo da solo: storia di un health-maker

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L’incontro è a Linate, in un albergo vicino all’aeroporto. Io parto da Torino, Villiam Dallolio da Reggio Emilia. Ha passato la mattina a visitare pazienti, a pianificare gli interventi.

È un neurochirurgo di grande esperienza, di fama internazionale. Nella sua carriera ha fatto oltre novemila operazioni. Ma non solo.

Il professor Dallolio, classe 1949, è in prima persona un inventore, un health-maker, un innovatore.

Ha i capelli grigi di chi ne ha viste tante, uno sguardo profondo, due occhi desiderosi di raccontare i successi di una vita. Recentemente è diventato direttore scientifico di Open Biomedical Initiative, un’organizzazione no-profit volta allo sviluppo e alla diffusione di tecnologie biomedicali tramite stampa 3D.

La sua è una storia affascinante che si lega, in un binario doppio, a quella degli ultimi sessant’anni della neurochirurgia italiana.

Una storia lunga, piena di aneddoti: decennio dopo decennio, tecnologia dopo tecnologia, innovazione dopo innovazione. Sempre con il desiderio di andare oltre, di afferrare il futuro. Fin da bambino.

Gli anni ’50: le formiche, l’eredità paterna, il riscatto sociale

«Non ho mai avuto dubbi. Sapevo di voler diventare neurochirurgo già a sette anni». Nella famiglia di Villiam Dallolio c’è un zio affetto dal morbo di Parkinson: «Zio Memo catturava la mia attenzione. Per me, così piccolo, era impensabile che nessuno fosse in grado di guarirlo. Mi convinsi che dovevo fare qualcosa, soprattutto quando capii che il problema stava nel suo cervello».

Se unite la curiosità con una certa dose di intraprendenza e la mescolate con un pizzico di ingegno, il risultato che ottenete può essere davvero sorprendente: «Presi ispirazione da un film che davano a quei tempi: “Gli ultimi giorni di Pompei”.

La lava travolgeva le persone, immobilizzandole. Capii che quella era la chiave per poter catturare le formiche più grosse e guardare dentro il loro cranio». Bastavano una candela e la cera calda. Poche gocce per bloccarle e stordirle: «Poi prendevo la mannaia più affilata e incidevo leggermente la testa. Così potevo osservare com’era fatto l’interno». Come un neurochirurgo vero, nonostante l’età.

Siamo in Emilia, la parte rurale, quella genuina dove tutti si sentono parte di una comunità e il tempo sembra non scorrere mai. Il papà di Dallolio è calzolaio. Uno di quelli che conoscono ogni sfaccettatura del loro lavoro: «Faceva tutte le scarpe a mano, la nostra eredità. Il mio cruccio è quello di non aver mai imparato i segreti del suo mestiere».

Un artigiano vero. La famiglia non era certo ricca e, negli anni ’50, nel Dopoguerra, non tutti potevano permettersi di studiare e laurearsi: «Il vanto di mia madre era sempre quello di esserci riuscita, con tutti i suoi figli». Nonostante un ambiente ostile e i commenti che sottolineavano le differenze di casta: «C’è una frase che la colpì. Fu pronunciata da una signora dell’alta borghesia nel vedere che anche i figli dei poveri andavano a scuola. Suonava un po’ così: – chissà quanto costeranno gli asini tra un po’-. Me la ripeteva sempre. Non la scordò mai. E neanche io». È il periodo delle gemelle Kessler, dei primi viaggi in automobile, del riscatto operaio.

Gli anni ’60: Il progresso, l’arte, il mondo accademico

La famiglia di Villiam si trasferisce a Bologna e lui può proseguire gli studi, coltivare il suo sogno: «Una casa nuova. Il telefono, l’acqua calda, i primi comfort. Il comprendere il vero valore delle cose. Rinacqui». Insieme arriva la passione per l’arte: i dipinti, il carboncino, le forme che nascono dai polpastrelli. Le mani diventano precise, i gesti sicuri.

L’arte e la neurochirurgia, apparentemente discipline lontane, sembrano avere molti punti in comune: «Entrambe hanno bisogno di un continuo aggiornamento, di evolversi, di rinnovarsi. Di applicazione e di lavoro.». Poi arriva l’Università. Dallolio ha una grande voglia di capire e di emergere. Così si scontra con un mondo lento e che ancora stentava a mettersi in moto: «Bisognava convincere i colleghi più vecchi dell’esistenza di nuove metodologie. Gli stati di criticità e i problemi si superano, ancora oggi, solo se noi possiamo migliorare ciò che facciamo ogni giorno. Fare sempre un passo in avanti per non rimanere mai fermi».

Gli anni ’70: Columella, la TAC, universi che si aprono

Il 1974 è un anno fondamentale. Villiam Dallolio ha appena conosciuto quella che diventerà sua moglie. È un giovane medico, curioso e affascinato dalla nuove tecnologie. Conosce un chirurgo affermato, Columella, che lo prende in simpatia. «Credetemi, il primo foro di trapano non lo dimentichi più».

Columella era uno dei pionieri in Italia di quella che, tecnicamente, viene chiamata lacerazione cerebrale. Ma non solo: «Negli anni ’60 aveva messo a disposizione il suo aereo privato ed è stato uno dei precursori del soccorso aereo. Aveva capito quanto fosse importante la velocità nel nostro mestiere. Salvare una vita poteva dipendere anche solo da quanto tempo si riusciva a non perdere durante un’operazione di salvataggio».

Poi ad un certo punto Columella, punto di riferimento anche politico, si suicida: «Mi diceva sempre una frase dopo che operava “Guarda questi che tentano di suicidarsi sparandosi alla tempia o in bocca. Non sempre funziona. L’unico modo è spararsi in un orecchio”. Era facile da capire: il proiettile attraversava il tronco dell’encefalo e non hai scampo».

Così, improvvisamente, tutto cambia: «Sono gli anni in cui il Partito Comunista è molto forte e basta una presa di posizione per decretare il proprio destino. L’ho imparato a mie spese». Il professor Dallolio, insieme ad altri medici, tutti fedelissimi di Columella, firma un documento in cui si oppone all’elezione del sostituto che, invece, vince. Tutti gli oppositori vengono fatti fuori e devono allontanarsi da Bologna. «Non avevamo altra possibilità che espatriare. Con un collega mi sono guardato intorno. E scelsi Lecco. Sai, I Promessi Sposi, il lago, il fascino di un luogo magico. Pensavo di starci per poco tempo e invece sono ancora lì».

Nel 1974 però avviene anche un’altra rivoluzione. Stavolta tecnologica. A Bologna arriva, per la prima volta, la TAC: «Ricordo che ne parlammo a Lecco, l’anno dopo, con i nostri superiori. Fu una pessima idea». Dallolio sorride mentre ripesca dalla memoria le parole esatte di quella conversazione surreale: «Dissi al mio professore referente che a Bologna avevamo visto una macchina speciale che faceva vedere, davvero, il cervello. La risposta non la dimenticherò mai. – Certo, e poi cosa fa vedere? – Dallolio smettila, ma che cretinate stai dicendo! -. Ovviamente cambiò idea quando la vide all’opera. Nel 1978 la acquistò per il nostro ospedale» La moglie del Professore viene assunta come infermiera professionale dedicata proprio a quella TAC. Erano le prime, così lente e così meravigliose per il futuro che lasciavano intravedere: «Una scansione ci metteva un minuto per fare una singola sezione. Tactactactac.. Oggi, quella per il cuore, fa 124 slide al secondo. Lo ferma. letteralmente, ed è così che puoi fare le scansioni 3D…»

Anni’80: la Stereotassi, un grande pittore, la medicina alternativa

Sono gli anni dell’affermazione. Professor Dallolio, ormai riconosciuto come uno dei massimi esperti di stereotassi, la metodica impiegata per raggiungere con estrema precisione un punto predeterminato all’interno del cervello, inizia a tenere conferenze, a girare il mondo. Nel 1984 viene a contatto con il mondo 3D applicato alla medicina e in particolare alla neurochirurgia.

«Per usare quella tecnologia nell’ambito della stereotassi serviva un casco specifico. E costava 120 milioni di lire. Ma per capire quanto fosse importante ti devo raccontare un’altra storia, quella del pittore Franco Alquati, una grande persona e un’artista incredibile». I dipinti, l’amicizia, la medicina: «Venne colpito da un tumore al cervello. Conservo i suoi disegni ancora delle cose che vedeva per colpa delle metastasi». Andarono persino da quello che veniva definito come il luminare del tempo: il modenese Di Bella. Non ebbero fortuna, ed è un eufemismo: «Meglio che non parli di medicina alternativa e di omeopatia. L’unica che risparmio è l’agopuntura. L’unica che ha una giustificazione scientifica, da 6000 anni». Alquati, purtroppo, muore. Ma quella è la spinta che porta il professore ad approfondire ancora di più la stereotassi, i modelli tridimensionali, la conoscenza approfondita del cervello umano: «Non fidatevi mai dei medici che vi dicono: – non ho bisogno di quei modelli, io ho tutto in testa -. Non è vero. Mai».

Anni ’90: I convegni all’estero, gli articoli, il neuro-navigatore

Nel 1992, Dallolio compie 43 anni, e in lui scatta qualcosa: «Avevo voglia di conoscere le tecniche degli altri neurochirurghi» Così viaggia e partecipa a moltissimi convegni, soprattutto negli Stati Uniti: «Scrivo e pubblico articoli. Studio, apprendo, imparo. Presento le mie teorie in inglese e mi confronto con i più bravi medici dell’epoca. Dopo un po’ mi accorgo però di ascoltare sempre le stesse cose, le stesse tecniche, eravamo quasi fermi». Si innova, certo, ma con troppa lentezza.

Nel 1996 partecipa ad un convegno mondiale ad Amsterdam: «Presentai sei nuovi progetti. Tutti legati a tumori, aneurismi e cose simili. Quasi contemporaneamente arriva qualcosa che cambierà per sempre il mio lavoro: il neuro-navigatore. Il tom-tom che si usa oggi in sala operatoria. Un sistema di puntamento e localizzazione per il corpo umano».

Il sistema è molto semplice. Nella testa del paziente si mettono dei riferimenti, dei marker cutanei, prima di fare una TAC per individuare un eventuale tumore. In sala operatoria, poi, attraverso dei macchinari specifici, l’uso di infrarossi e catarinfrangenti che vengono riconosciuti dai computer e trasmessi in uno schermo, viene ricostruito il tutto. In 3D. «Hai la copia perfetta del cervello che devi operare. Lo puoi allargare e restringere. Un sistema che ti aiuta e che ti risparmia possibili errori». Dallolio è uno dei primi, a Lecco, a comprare il sistema di neuro-navigazione: «Costava 700 milioni di lire, oggi lo compri a meno di 100mila euro». Ma non si ferma lì: «Sono stato uno dei primi a usare insieme endoscopio e navigatore. Andavo a parlare in giro, a convegni, riunioni e in pochi mi capivano». Camminare a ritmo sostenuto è importante ma spesso è importante che anche gli altri ti seguano. Se non lo fai il rischio è quello di andare troppo oltre e di ritrovarti solo.

Nel 1998 Villiam Dallolio decide di fare qualcosa per sostenere la ricerca in neurochirurgia e di preparare i talenti del futuro: «Fondo l’associazione ANNA, ancora attivissima, per dare borse di studio e nuove opportunità. A quel tempo operavo moltissimi malati e alcuni di loro volevano ricompensarmi. Decisi di convertire quelle possibili donazioni in borse di studio da dare all’ospedale che le destinava, a sua volta, a giovani bio-ingegneri».

Anni ’00: La stampa 3D, Ferrigno-Bertolotti,

Nel 1999 Professor Dallolio incontra la prima stampante 3D: «Un sogno. Una meraviglia. Fu in un’azienda di Cusano Milanino». Da quel momento inizia a commissionare e stampare protesi craniche. Un’altra rivoluzione in campo chirurgico: «In quell’anno avvenne un evento di grande risonanza mediatica. La partita di calcio Como-Modena. Ferrigno stende con un pugno Bertolotti nello spogliatoio. Quest’ultimo cade e, nel marmo, si frantuma la testa». Professor Dallolio lo opera, a Lecco: «Lacerazioni cerebrali, una batosta mica da ridere. Bertolotti resta senza osso per sei mesi. Nel maggio del duemila gli metto una delle prime protesi customizzate, stampate in 3D, per i pazienti. Un fatto che ebbe una grandissima risonanza». Tanto che, nel 2001, viene organizzato il primo convegno nazionale sulla cranioplastica fatta su misura: «Invitammo anche Bruno Lauzi, a cantare, come ospite d’onore».

2010: le innovazioni, il futuro, i nuovi strumenti

Il progresso ha ripreso a correre, le scoperte si susseguono. Dallolio, a questo punto, capisce che è ora di realizzare alcune idee che ha in testa da un po’. Vuole migliorare alcune pratiche, ingegnerizzare alcuni strumenti. Ma c’è un problema: «Il neurochirurgo è una figura strana. Vuole che ogni innovazione funzioni immediatamente nelle sue mani, senza che debba perdere troppo tempo ad imparare le cose» Così, negli ultimi cinque anni ha deciso di seguire un motto: «Dai in mano ai colleghi solo una cosa che possa usare fin da subito, senza che debba perderci troppo tempo». Quella è la chiave per convincere il mondo della neurochirurgia.

In questi anni ha perfezionato tre prodotti, con la proMEV, l’azienda di prototipazione e sviluppo di strumenti chirurgici, fondata con altri due soci:

  • Skullpturas, il processo che porta alla creazione e allo sviluppo di protesi tridimensionali personalizzate per ogni paziente;
  • Tenetor, il dispositivo per procedure neurochirurghe “frameless” come la biopsia cerebrale, procedure endoscopiche o evacuazioni di ematomi: «Sostituisce i casco stereotassico. Una sua pratica evoluzione»
  • Trivellum, il perforatore di ultima generazione che vuole combattere il 2% degli errori che oggi vengono fatti durante le operazioni sul cervello. Sembra una percentuale bassa ma in realtà è un problema reale: «Ricorda che accettare il 2% vuol dire accettare che 5mila operazioni in Italia oggi falliscono. Per me è follia».

Ultimo capitolo di questa lunga storia: il filo chirurgico che fa il nodo da solo.

Il CNR di Lecco è il principale centro italiano specializzato in nichel-titanio, un materiale in grado di mutare la sua forma. Lavorando con loro, il professor Dallolio ha brevettato altri tre nuovi strumenti: la clip fissa cranio, un ammortizzatore spinale e, soprattutto, il filo chirurgico che fa il nodo da solo. Quest’ultimo è certamente il prodotto più interessante perché può essere applicato a tutti campi della chirurgia moderna: sutura le ferite in maniera innovativa, precisa. Basta scaldarlo quando è pronto per chiudersi attorno alla ferita. Tutto avviene da sé, con estrema semplicità.

È un’innovazione che potrà cambiare moltissime cose in ambito chirurgico. Si pensi, infatti, a tutte quelle operazioni che vengono fatte in punti molto piccoli, un centimetro (o anche meno): usando questo filo non c’è il rischio di sbagliare. Si passa dall’abilità del chirurgo che, in caso di errore, deve rifare tutto, ad una operazione meccanica, ripetitiva: «Il gesto avviene naturalmente. È pura matematica. Riduce i tempi totali dell’operazione oltre a dare totale sicurezza che il nodo, super elastico, non si apra mai». Ci guadagna il chirurgo, ci guadagna il paziente (che rimane meno tempo sotto anestesia), ci guadagna la medicina.

Si chiama progresso. Si chiama innovazione. Ed è un processo, come insegna la storia di Villiam Dallolio, che non si arresta mai. Almeno finché ci saranno persone come lui.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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