È partito da poco ma ha già raccolto tanti pareri favorevoli. Tweet from a prison, progetto che si aggancia alla cooperativa sociale Made in carcere, è infatti rivoluzionario nei suoi obbiettivi, e sfruttando le caratteristiche dei social aumenta la sue potenzialità.
Già da quattro anni alle detenute per reati minori è offerta la possibilità di imparare un mestiere, un lavoro da iniziare durante il periodo di reclusione con la speranza di continuarlo anche dopo aver scontato la pena.
Alle donne viene così fornito tutto il materiale per produrre braccialetti e altri gadget simili, utilizzando materiali e tessuti da riciclo. Come ha spiegato Luciana Delle Donne, fondatrice di Made in Carcere, «si tratta di un progetto basato su una seconda chance offerta sia alle donne.
E lo è anche per i tessuti, che altrimenti verrebbero buttati al macero».
Col tempo ci si è tuttavia scontrati con un problema, e cioè con la scarsa partecipazione da parte delle detenute. Come convincerle allora a prendere parte a quest’iniziativa?
Un software per le detenute
È la domanda da cui sono partiti Matteo Maggiore e Valerio Mangiafico, due creativi impiegati nel settore pubblicitario e ai quali, come mi hanno detto loro stessi, «piace risolvere i problemi dei brand per i quali lavorano, inventando sempre soluzioni alternative e tecnologicamente all’avanguardia».
Gli chiedo così di raccontarmi qualcosa in più su Tweet from a prison, com’è nato il progetto e quale itinerario è stato seguito per arrivare a realizzarlo.
«Siamo partiti prendendo in considerazione un problema del brand Made in Carcere: la difficoltà nel reclutamento delle detenute.
Per questo, si è pensato di offrire alle donne qualcosa che in carcere è proibito: comunicare con il mondo esterno. Abbiamo pensato di trasformare un prodotto di Made in Carcere già esistente come il braccialetto in uno strumento di comunicazione. Le detenute, infatti, possono cucire il loro tweet sul bracciale e mandarlo al mondo esterno attraverso i canali di vendita online del brand. Inoltre, un gruppo di ingegneri salentini ha progettato un software capace di far comunicare Twitter con una macchina da cucire.
Ogni volta che una detenuta riceverà una risposta al suo tweet, questa speciale macchina da cucire imprimerà il tweet digitale su un telo, il quale ogni giorno verrà consegnato in carcere e fatto leggere alle detenute».
Sembra quasi uno strano baratto, una compravendita in cui entrambe le parti riescono a guadagnarci.
Ma in realtà è molto di più.
«L’altro aspetto rilevante della campagna», continuano Matteo e Valerio, «è quello legato ad una statistica.
L’80% dei detenuti che in carcere apprendono un nuovo mestiere hanno meno possibilità di delinquere una volta rilasciati, perché attraverso il lavoro acquisiscono una consapevolezza differente dello stare in una società civile. Pertanto, il progetto Tweet from a prison ha degli importanti aspetti educativi che continueranno a migliorare la vita del detenuto, anche dopo il suo rilascio, così come della società intorno a lui».
Inizialmente, come hanno reagito le detenute alla vostra proposta?
«Fin da subito ci siamo accorti di un importante gap: le nostre interlocutrici non conoscevano cosa Facebook, Twitter e Instagram fossero prima di questo progetto. Sono rimaste un po’ basite, ma man mano c’è stata una grande adesione. La voce si è sparsa rapidamente fra le detenute che hanno visto una grande opportunità in questo progetto».
Quali sono state le loro reazioni di fronte alla possibilità concreta, sebbene virtuale, di comunicare col mondo esterno?
«In ogni loro sguardo abbiamo letto speranza e profonda gratitudine. Si sono sentite ascoltate e capite, ma più di tutto aiutate.Una di loro, in particolare, ha subito visto nello strumento di Twitter una nuova occasione di riconnettersi a sua figlia, che ormai non le fa più visita da mesi».
Invece quali sono state le vostre reazioni, i vostri sentimenti in un contesto simile?
«Ci siamo sentiti privilegiati, e ovviamente felici, nel dare a queste persone un piccolo contributo per potersi reintegrare, nella speranza che trovino più facile rientrare in una società così complicata e difficile da seguire».
Tweet from a prison è stato inoltre lanciato attraverso un corto, realizzato dalla regista Serena Corvaglia, e conta già uno store on line su cui è possibile acquistare i gadget delle detenute, e soprattutto un vero e proprio account Twitter attraverso cui comunicare con loro.
Se c’era un modo alternativo e geniale di usare i social, a cui ancora non avevamo pensato, direi che Matteo Maggiore e Valerio Mangiafico l’hanno davvero trovato.
ANGELA BUBBA