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Diario di viaggio da un ufficio della pubblica amministrazione

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Gianni Morandi, esattamente quarant’anni fa, cantava: “Sui monti di pietra può nascere un fior”. Non era una domanda, come verrebbe da pensare, ma una affermazione (e pure di comodo): anche i peggiori presupposti, questo è il concetto, possono produrre risultati positivi. Bene. Traspongo la stessa questione, in forma di domanda però, a proposito della “governance digitale” che Stefano Quintarelli, in un articolo recente, ripropone in maniera tanto sintetica quanto lucida, per dare ossigeno al nostro disgraziato Paese.

Qualche tempo fa, per varie ragioni, mi è stato messo a disposizione per qualche giorno, un ufficio in un ente pubblico. Conosco in generale la situazione, ma è stato utile viverla ancora una volta. Molto gentilmente mi hanno mostrato la stanza: una scrivania, il tavolino “dattilo” per il computer, un piccolo tavolo tondo “per le riunioni”, la presa di rete, il PC desktop monumentale, il telefono altrettanto monumentale, l’armadio, la libreria.

È la dotazione standard, mi è stato fatto notare, di un ufficio dirigenziale. Un’altra stanza identica, accanto, per i collaboratori: due scrivanie, due tavoli dattilo, libreria, armadio. Esco nel corridoio per guardarmi in giro e vedo che lo stesso modulo è replicato in una sequela innumerevole di stanze, una di fila all’altra: un convento, una prigione, non so. Porte da chiudere a chiave, se la stanza è vuota, perché “non si sa mai”.

Ogni gesto, ogni modo di porsi, in fondo, è un messaggio. A rischio di apparire paranoico, provo a decrittare quello che la pubblica amministrazione trasmette alle sue persone. Andiamo per punti. Si lavora per camere separate, chiusi in stanze che sembrano fatte apposta per non fare girare le idee. Una giustapposizione di individui senza che la gestalt, la sintesi del “tutto oltre le singole parti”, sia in alcun modo percepibile.

Ma è alla “stanza” che dobbiamo guardare.

La scrivania, elemento centrale e identitario, oltreché pezzo forte della partita, è il “Regno della carta”, dove si tengono, anzi si accumulano, le pratiche da firmare, le cose da sbrogliare: la carta ha bisogno del suo spazio, fisico e mentale. Uno spazio che, evidentemente, è il centro del mondo. “È alla scrivania”, si dice, per dare la tranquillizzante certezza che un collega è a lavoro. Oppure “Non ho una scrivania!”, per lamentare l’insopportabile condizione di nomade durante una qualsiasi transizione lavorativa.

Dimmi che scrivania hai e ti dirò chi sei.

Ce ne è di ordinate, di casual, di quelle che testimoniano una vocazione alla famiglia o, al contrario, una sfacciata disponibilità all’avventura garibaldina. Ci sono quelle pignole, ossessive, dove anche l’angolazione della penna biro poggiata sul piano, è sapientemente calcolata.

Ma le più intriganti sono “le soccombenti”, dove l’accumulo di fogli, fascicoli, pratiche, report, dettato dall’ansia, dalla disorganizzazione o da tutte e due le cose messe insieme, raggiunge e altezze e volumi impensabili, segno di una sostanziale resa nei confronti del mondo.

Al confine occidentale dell’Impero della carta, il telefono fisso. Chiedo al lettore, la pazienza di pensare rapidamente alla propria comunicazione personale, e calcolare la percentuale di chiamate da fisso, rispetto a quelle da mobile, nel giorno, settimana o nel mese in corso. Zero, qualche per cento, non so. Eppure “l’apparecchio telefonico” sta lì a troneggiare, a testimoniare l’esistenza di un mondo indomito che, nonostante ogni attacco, non muore mai. Ma non è conservazione fine a se stessa: il cellulare, Skype, il blog, la chat, la galassia dei canali mobili che offre la giusta opzione per ogni tipo di comunicazione, allontana dalla scrivania, è il deviante “Paese dei balocchi” che distoglie il solerte impiegato dall’impegno quotidiano. Meglio diffidare.

Il “mondo del digitale” è difatti defilato, separato, chiuso in una scatolaccia inamovibile di ferro dalla quale, come dal groppone di un porcospino, spunta una infinità di spine e fili coperti di polvere. Solo lo schermo da 17” (quando va bene) la “tastiera estesa” e il mouse, rigorosamente wired, si affacciano (non sempre, ma comunque rispettosamente) sul territorio dell’Impero. Chiedo ancora di pazientare e provare a calcolare, nel nostro traffico internet della settimana, quanto sia stato affidato a dispositivi fissi. Compito un pochino più complesso ma, pensandoci appena, vediamo che il nostro mondo sta sullo smartphone: Twitter, Facebook, la condivisione al volo di una foto, la rubrica, l’agenda, la posta elettronica, i nostri impegni se ne stanno lì, sempre con noi. Poco “fisso”, poche “spine”, pochi “fili”. Un altro mondo, insomma, è possibile e certamente migliore.

Verrebbe da chiedersi: “Allora, perché?” La risposta è facile. Avete presente la nursery del reparto maternità, con tutte le culle dietro il vetro, e i bimbi che aspettano lo spazio di un giorno per entrare finalmente nella vita? Ecco, quello è il PC nella nostra pubblica amministrazione: l’incubatore di ciò che non è ancora carta ma che presto lo diventerà, per iniziare il proprio percorso nel dedalo di uffici che lietamente lo attende. Ma non è soltanto questo: oltre al giardino d’infanzia, c’è pure l’ospizio cattivo, il terribile cronicario dove immense quantità di informazione, sole e abbandonate nella loro inutilità, chiuse nel disco fisso, attendono solo una qualche forma, più o meno dignitosa, di fine-vita. Quel “ferro” è in realtà un finto ferro che, per buona parte, nasconde carta che prima o poi, basta avere pazienza, verrà fuori.

Per parlare con gli altri, c’è il tavolino delle riunioni. I più bravi riescono a preservarlo libero, la riserva indiana dei rapporti con i colleghi. Ma spesso diventa la succursale della scrivania, dove la carta in eccesso, quando lo spazio dell’Impero si riduce ai minimi termini, trova un provvidenziale piano di appoggio. La signora delle pulizie si lagna: “Come faccio a spolverare?” e subito la risposta “Maria, per carità, non tocchi nulla!”. Ci si giustifica con i colleghi che non sanno dove mettersi a sedere, aggiustando alla bell’e meglio i posti, e implorando al contempo di “non fare la ruspa”, spingendo a casaccio le pile di fogli per far posto, fino a perdere quel prezioso barlume di ordine spaziale che consente almeno di raccapezzarsi.

Si diceva che un altro mondo è possibile. E non c’è bisogno di andare nella Silicon Valley per capire quanto la tranquilla condivisione di un luogo, la libertà di configurare dinamicamente il proprio spazio e tempo lavorativo, la leggerezza della postazione fisica rispetto alla centralità della mente, le forme collaborative come opzione operativa primaria, siano l’evidente carta vincente per creare progetti vincenti. Buona parte delle nostre imprese più avanzate lavora normalmente così, e non da ieri. La PA, invece, resta indenne. Non un segno, un’idea, una visione. Niente. Si parla di spending review e di quanto “il digitale” consenta di risparmiare. Si parla, appunto. Ma i processi produttivi, gli spazi e gli strumenti dicono il contrario. Abbiamo detto, anche su questo blog, che la ricetta per sopravvivere si può distillare in tre hashtag: “cloud”, “collaboration” e “mobile”. Ognuno è intrecciato indissolubilmente agli altri due e questo fatto, ripensandoci bene, lo sperimentiamo continuamente nella nostra vita di ogni giorno, in ogni singolo “gesto tecnologico” che facciamo.

La nostra PA, per buona parte, vive nella logica opposta: “client”, “fisso” e “poca circolazione”. Un approccio che, buona parte degli uffici, dimostra, comunica, trasmette convintamente, ad ogni occasione. Si risparmia “tagliando i cellulari”, anche se, a conti fatti, costano quanto o meno del fisso, si riciclano virtuosamente PC decrepiti che, a casa nostra, non proporremmo nemmeno alla nonna, si confonde il concetto di open source con quello di “gratis” e facendo così un torto ad ambedue le categorie. Ma questo, purtroppo, è solo un aspetto parziale del problema. “Sui monti di pietra”, purtroppo, “non può nascere un fior”. Dalla scrivania, dall’Impero della carta, non nasce la PA digitale. Non nasce nemmeno dalla PEC, tanto conclamata come panacea per tutti i mali del pianeta, e neppure dalle altre poche pezze messe qua e là, e che vanno a sovrapporsi a uno stile di lavoro che, rispetto al privato del pubblico dipendente, è dieci anni più vecchio.

Si dirà che cambiare le cose, attaccare la scrivania, condividere spazi e tempi, alleggerire tutto questo peso è una follia, una sciocca utopia demagogica, una rivoluzione copernicana per la quale mancano, tempi, risorse ed energie. E che vale la pena di fare con quello che c’è. Eppure, in diverse parti del mondo hanno iniziato a farla, questa rivoluzione. Che poi vuol dire avere una visione creativa e trasversale del digitale. E hanno iniziato proprio in quei dannati dieci anni di “buco di governance”, tra il 2001 e il 2012, che Stefano rammenta nel suo articolo. Gli anni in cui l’Italia è stata abbandonata senza alcun intervento organizzativo o normativo. Eppure ciascuno di noi nel suo privato, nonostante la crisi, la depressione, la recessione e quant’altro, è andato un bel pezzo avanti. Forse vale la pena di pensarci.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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