Durante i Giochi bastava entrare in un Apple Store e ti regalavano un pin, una spilla. Indifferentemente, un iPhone o un iPad con la Union Jack come cover. Era un modo garbato di stare in trincea a difendersi contro la posizione dominante di Samsung che, in quanto sponsor del CIO, era dappertutto.
Adesso che si torna a Londra per le Paralimpiadi non è in realtà cambiato molto in città. I cinque cerchi non sono spariti, ma hanno lasciato la scena ai tre agitos, le tre gocce che rappresentano il comitato paralimpico. Il fatto che questo marchio sia esposto a Trafalgar Square sulla facciata della National Gallery è già un segnale: la disabilità è una risorsa da esibire, non qualcosa da nascondere per vergogna.
Insomma, Samsung continua ad avere una posizione dominante, ma dopo il verdetto del tribunale Usa, si capisce che Apple può tornare a essere baldanzosa. Non per niente, i suoi spot sono stati piazzati nelle dirette delle Paralimpiadi che cominciano mercoledì. “Sport like never before” lo slogan di presentazione quasi a bandire ogni forma di pietismo e un record di 2 milioni e mezzo di biglietti venduti a testimoniare che la gente vuole riprendere la festa appena chiusa con le Olimpiadi.
Anche se Londra è pur sempre una città in cui una metropolitana super efficiente mostra i suoi ormai 150 anni di storia, dato che non ha ancora reso pienamente accessibili neanche la metà delle proprie stazioni. Apple dunque come spunto. “Think different” diceva una sua pubblicità degli esordi, e noi dobbiamo cominciare a pensare in modo diverso alla disabilità.
Oggi disabili si continua a nascere, oppure si diventa: per malattia, per incidente, per infortuni sul lavoro. O anche perché si è stati soldati impegnati in operazioni di peacekeeping o perché, come succede qui con qualche reduce degli attentati del 2005, si è saliti sui mezzi pubblici nel momento in cui qualcuno ha piazzato una bomba.
Un disabile è un soggetto sociale da capire: allarga il suo problema ai familiari, ed è un caso difficile per la comunità. Come fare a recuperarlo? Prima ancora, come fare a non perderlo? Nel 1948 un medico tedesco che era fuggito dalla Germania delle leggi razziali codificò quelle che oggi sono le Paralimpiadi: un evento con 5000 atleti da tutto il mondo. Lui era arrivato a Stoke Mandeville: è da qui che deriva il nome della mascotte delle Paralimpiadi, Mandeville.
Non una invenzione di un creativo impazzito, ma un preciso omaggio alla storia.
Il sanatorio in cui lavorava si affacciava su un campo sportivo. Dato che la diagnosi per i reduci che tornavano dal fronte era sempre impietosa, lui si concentrò sulla prognosi, fino a capire che proprio lo sport – non importa se praticato prima della guerra o meno – poteva essere una forma di guarigione. Il recupero dell’autostima, il piacere e il bisogno di sentirsi ancora attivo. Le Paralimpiadi vere e proprie partirono, dopo quella prima edizione in sordina, nel 1960 a Roma.
Adesso sono un fenomeno, per certi versi un laboratorio del mondo che verrà come e più delle Olimpiadi. Ai Giochi gli atleti hanno ai piedi i prodotti studiati nei laboratori di Beaverton e Herzogenaurach, rispettivamente gli Usa di Nike e la Germania di Adidas. Qui hanno anche le protesi di un colosso islandese come la Ossur che fa volare Pistorius: si tratta di una azienda tedesca ormai multinazionale come la Ottobock.
E nella geografia dei nomi da imparare, a fianco di Beaverton ed Herzogenaurach, possiamo aggiungere Budrio. L’italianissima Budrio, un polo all’avanguardia. È partito tutto dal centro di Vigorso dell’INAIL, un cui dirigente mise la firma sull’atto di nascita delle Paralimpiadi nel 1960. Adesso tutto il paese vive di questa economia che è ancora sommersa ma è già la facciata della National Gallery. Ed è bello sapere che ci sono piccoli laboratori che rappresentano il più classico dei made in Italy che si fa azienda: Arte Ortopedica. Ne avremo da raccontare in questi giorni. Inseguendo Alex Zanardi e altri come lui. Channel 4, la Tv ufficiale delle Paralimpiadi, li chiama “Super Humans: think different”.