Ecco come possiamo rendere i fablab il cuore della manifattura italiana

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l 2014 è l’anno dei makers. Oltre alla notevole recente esposizione mediatica, lo testimonia la nascita della Fondazione Make In Italy CdB Onlus. Risorse importanti vengono impegnate per aiutare e strutturare la vivace attività “dal basso”. Perché avvenga la definitiva consacrazione del movimento dobbiamo permettere a sempre più makers di vivere del proprio lavoro e, quindi, occorre occuparsi della sostenibilità economica di fablab e affini.

Poiché in Italia il pubblico non è in questa fase un attore privilegiato, soprattutto per la mancanza di risorse, dobbiamo rivolgerci ai privati, perché svolgano ruoli di sponsor, partner o clienti. Questo primo contributo sintetizza articoli apparsi su Lo Spazio della Politica, nuclei di un ebook che sto curando come Make in Italy (e LSDP) con l’aiuto di diversi membri dell’Associazione.

L’obiettivo è semplice: accreditare il movimento presso le imprese manifatturiere, colonna portante del paese e, probabilmente, tra gli attori più indicati per rilanciare la crescita economica attraverso le esportazioni. Vogliamo convincerli che realtà come i fablab e le officine private potranno assisterli nella creazione di prodotti modulari, altamente personalizzabili oppure nell’innovazione distribuita, attraverso prototipazioni rapide e a contatto diretto dei consumatori. In altri paesi la corsa è già cominciata: non è d’altronde la prima volta che un movimento di smanettoni, nato in garage e officine improvvisate, dà origine a economie floride.

A oggi il fenomeno dei fablab è ancora troppo fresco per delineare dei chiari modelli economici di sviluppo, ma è evidente che ci sono pochi casi di sostenibilità di successo. Buona parte dei fablab si appoggia a qualche istituzione accademica, mentre qualcun’altro riesce a trovare degli sponsor illuminati.

La maggior parte dei fablab è rappresentata da luoghi che dispensano servizi a consumatori (che si creano propri oggetti) e a innovatori che sperimentano e prototipano le proprie idee. Difficile oggi avere grandi margini, dato che i consumatori di solito spendono su oggetti di piccole dimensioni e gli innovatori-prototipisti sono ancora rari.In questo articolo cercherò di proporre tre ricette, pensate per aiutare i fablab e le imprese che decidessero di appoggiarli:

1) la produzione distribuita, ossia l’assemblaggio nei fablab di prodotti rilasciati con licenze “open source”;2) la costumizzazione on-site;3) la prototipazione aperta, ossia lo sviluppo di nuovi prodotti da parte di comunità di innovatori in collaborazione con le imprese.

LA PRODUZIONE DISTRIBUITA

Per aprire di più ai consumatori, i fablab dovrebbero riuscire ad abbassare i prezzi del prodotto finito, ancora elevati in confronto ai concorrenti industriali.

Questo perché costano i macchinari e la manodopera, e perché non è possibile sfruttare leggi di scala. Occorre fare qualche considerazione macroenomica, partendo dalla base: quali componenti incidono sul prezzo di un bene? E’ ovvio che dipendono dal prodotto, e che quindi dovrò fare delle generalizzazioni. Partirei da osservazioni abbastanza note, che hanno il pregio di dare cifre su cui riflettere, in merito al costo di produzione dell’Iphone 4S (esempio celebre di prodotto di consumo high-tech): si aggira sui 188-200 dollari (secondo le fonti).

Da cosa deriva la differenza di prezzo? Al di là di manifattura e costo dei componenti, nei prodotti di marca ricerca&sviluppo e marketing la fanno da padroni. Pesa anche il customer care, sempre più richiesto per oggetti di simile complessità. E poi c’è l’intangibile, ossia il valore del marchio. Non ho fatto esempi a caso, ma ho cercato costi che si possono eliminare in un mondo di open-economy. È evidente che se si riesce ad agire su di loro è possibile aumentare il costo della manodopera (a costo componenti costante, ma ho un’idea per farlo calare).

Il discorso per cui le aziende chiudono perché costrette a competere con prezzi alla produzione bassissimi è una mezza verità. Si è decisa una strategia di outsourcing consapevole: le multinazionali si sono liberate di problemi oggi sensibili, come i diritti dei lavoratori e la salvaguardia dell’ambiente, affidando la produzione a fornitori terzi. La competizione tra i fornitori abbassa notevolmente il prezzo, e aumenta la velocità con cui si introducono le novità sul mercato.

Questo è il paradigma competitivo. Proviamo allora a immaginare un modello cooperativo da opporvi, un modello in cui i prodotti che acquistiamo sono protetti da licenze open (usando la CC BY-SA, (licenze creative commons, ndr)), il loro sviluppo fa capo a fondazioni (che coordinano e accentrano la ricerca), produzione e commercializzazione si basano su laboratori distribuiti (che chiamerò per semplicità fablab, ma potrebbero anche essere luoghi meno ricchi di creatività degli attuali fablab) e su mega-portali internet.

Alcune modifiche progettuali sono necessarie per dare vita a questo sistema. Il cellulare, preso come esempio, dovrebbe diventare modulare, di modo da non doverlo cambiare ogni anno o due. Per aggiornarlo basterebbe modificare la Cpu, la batteria e la memoria. Si potrebbe sfruttare ancora la competizione tra fornitori, ma in modo più consapevole: la Cpu può provenire da marchi diversi, che hanno qualità e costi diversi; ogni assembler sceglie in base alle proprie priorità, dandone notizia al cliente (quando quest’ultimo non se lo assembli da solo…). Se posso scegliere per due euro in più una memoria realizzata da una società socialmente responsabile, perché non farlo?

Seguendo questa filosofia, si è timidamente mossa Nokia, (http://conversations.nokia.com… ) e, con maggiore coraggio, Motorola (il progetto Ara di cui ha già discusso Simone Cicero). Di certo non basta modificare l’architettura hardware: occorre modificare anche la percezione che ha il consumatore del proprio telefono, riportarlo a strumento di comunicazione e personal assistance. Non tutti avrebbero bisogno di grande potenza computazionale, quindi di architetture troppo spinte.Non è necessario, comunque, dedicare le riflessioni solo su un terreno molto spigoloso come gli smartphone. L’esempio mi attira perché sono convinto che i makers esprimeranno il loro potenziale creativo soprattutto in gadget tecnologici, penso a tutto l’ambito wearable, dove sarà possibile combinare ingegneria e medicina, nonché servizi alla persona.

Ciononostante, c’è già un settore in cui sia possibile sperimentare la produzione aperta: il mobile, in cui peraltro l’Italia è ancora forte. La rete è ricca di proposte di “open forniture”.Il primo esempio valido che ricordi risale a un concorso indetto da Domus insieme al Fab Lab di Torino: “Autoprogettazione 2.0”; hanno dimostrato che è possibile creare mobili di design con le tecnologie disponibili in un fablab, rilasciando con licenza creative commons i dieci progetti premiati. È stato poi il momento di Open Structures, dell’italiano Instructionforuse.com, anche se la vera consacrazione del mobile “open” si ha con Open Desk https://www.opendesk.cc/ Il suo obiettivo è la produzione locale.

Tutti i file dei mobili sono disponibili per essere scaricati gratis, lavorati da CNC e rifiniti a mano. I pezzi finiti possono essere assemblati in loco e la qualità del design è buona. Sono previsti diversi livelli di interazione dei clienti:1) chi dispone di CNC si prepara i pezzi scaricando i file delle istruzioni;2) chi invece non ha una CNC, ma gli strumenti per lavorare il legno, può acquistare i materiali già tagliati e da rifinire;3) chi, infine, manca degli strumenti, può acquistare l’intero pacchetto da montare, stile IKEA.

Partendo dalle proposte di OpenDesk provo a immaginare il tipo di clienti interessati da questo modello aperto, organizzandoli secondo diverse modalità di consumo.

1. Massimo impegno: spendo solo per l’acquisto iniziale, poi mi cerco i prodotti in rete, sui siti che li offrono, me li compro e provo da solo. Mi smonto e rimonto il cellulare, come mi piace, scrivo qualche riga di codice per avere applicazioni più efficienti. Ogni tanto vado a incontri di nerd per condividere le nostre idee migliori.

2. Medio: frequento un fablab dove mi insegnano a smontare il telefono, dove mi consigliano sulle novità da introdurre. Mi informo e documento su vari siti, e quindi mi confronto con quelli che al fablab ne sanno di più.

3. Minimo impegno: mi abbono al fablab, porto il cellulare ogni tanto per fargli dei controlli e dei miglioramenti (hardware/software).

Gli abbonamenti dei clienti “meno interattivi” porterebbero notevoli ricavi sicuri ai fablab, che potrebbero migliorare la propria dotazione di strumenti e far crescere in qualità i prodotti open (oltre a dedicarsi ad attività più di frontiera). In sintesi, ecco l’origine del risparmio per le imprese:1. Ricerca e sviluppo sono condivise, secondo modelli open in cui esistono migliaia di innovatori e betatester.2. Il marketing non ci interessa. I fablab presentano i nuovi modelli quando arrivano, e sono i consumatori (prosumer) a farsi avanti per sapere le novità. Chiaramente servono molti più fablab e una maggiore diffusione del fenomeno dei makers.3. L’assistenza è svolta dai fablab sparsi sul territorio, e spesso diventa superflua, grazie alle competenze acquisite dagli utenti.

CUSTOMIZZAZIONE ON-SITE

E’ contenuta in buona parte nella produzione distribuita ma non impiega per forza delle licenze aperte. Se le stesse tecnologie di produzione vengono utilizzate per rifinire alcuni dettagli dei prodotti di consumo, è possibile dare vita a oggetti altamente personalizzati. Immaginate di acquisire attraverso degli scanner 3D le mani di un motociclista che si fa stampare le manopole dei freni su misura; stesso discorso per un cameraman o un fotografo che adattano al proprio fisico i loro strumenti di lavoro. Anche una racchetta da tennis o il volante di un’auto potrebbero essere costumizzati in questo modo.Per prodotti high-tech di design (Hi-Fi, per esempio) si può immaginare una base modulare con diverse opzioni di colori e bottoni stampabili al momento dell’acquisto.

PROTOTIPIZZAZIONE APERTA

Il fablab per auto sostenersi deve riuscire ad avere buoni introiti, deve offrire servizi ad alto valore aggiunto, perché il solo abbonamento agli strumenti non basta. Ecco che l’alto valore aggiunto deriva dalle conoscenze tacite acquisite dalla sua comunità: un fablab potrebbe offrire in abbonamento, oltre all’uso dell’attrezzatura, la capacità progettuale del team che lo anima, diventando allora un luogo deputato a gestire la prototipazione di nuovi prodotti: questi possono originare da un designer, da un inventore o da una società. Il fablab si porrebbe quindi come servizio di couching “fisico” per innovatori di prodotto, affiancandosi a servizi di couching classici per start-up. Una volta che il prodotto è stato sviluppato e prototipato, si cerca un partner commerciale con cui passare alla fase due: ingegnerizzazione per la produzione industriale. Una parte delle royalties andrebbero all’inventore e una parte al fablab.

Il fablab, inoltre, potrebbe diventare anche micro-distributore dei prodotti così creati (così i suoi responsabili imparano a gestire la logistica di un futuro magazzino).

Se davvero volessimo aiutare l’ecosistema innovativo italiano, e lasciare da parte i purismi, i fablab dovrebbero aprirsi alle PMI.

Per sviluppare i loro prototipi, mettendoli a disposizione di hacker in grado di smontarli e testarli davvero. Allo stesso modo, le PMI dovrebbero aprirsi al mondo dell’open manufacturing, abbandonando timori e prudenze che portano a chiudersi in se stessi e risultano perdenti di fronte a una concorrenza internazionale sempre più agguerrita. Molte realtà manifatturiere distano anni luce dai propri consumatori: perché sorgono in distretti industriali, non in grandi città; perché non ci lavorano teenager e modaioli, perché sono dipendenti dai dettami dei fornitori. Fablab metropolitani porterebbero a contatto i prototipi con i futuri clienti, testando in anticipo opportunità commerciali. L’esperienza di design mood http://www.youtool.it/e https://it.formabilio.com/ mostra che l’apertura dell’impresa all’open innovation è una strada già percorribile.

Un sistema di prototipazione diffusa potrebbe aprire delle sedi nei diversi distretti italiani e favorire un enorme trasferimento di conoscenza, dalle imprese ai designer e tra le imprese stesse (a livello nazionale). Ogni nodo della rete immette infatti i modelli in fase di sviluppo, di modo che se un’azienda vuole sviluppare a Torino un nuovo prodotto può scoprire che è già in fase di realizzazione a Trento e quindi contattare il team e l’azienda promotrice, dando vita a partnership più capaci di affrontare il mercato estero. Se un’azienda non riesce a risolvere a Firenze problemi ingegneristici, può sperare di affidare ai diversi fablab presenti sul territorio la ricerca di una soluzione. Una volta arrivati al prodotto industriale, il rilascio in creative commons del progetto permette una ricerca continua che ha nella rete di fablab (e nelle communities di makers che la animano) un sostegno e un punto di appoggio.

Si tratta di mettere in piedi un’infrastruttura conoscitiva molto intensa e le associazioni di categoria del campo PMI potrebbero investire al fine di ammodernare l’offerta di prodotti dei propri aderenti. Non ci sono dubbi sul fatto che

un fablab del genere creerebbe figure professionali molto richieste, diventerebbe una specie di bottega rinascimentale in cui andare a imparare sul campo lavorando con dei coetanei in ambienti molto stimolanti.

Un modo per aumentare le competenze tecniche e rendere i giovani più appetibili per il mondo del lavoro.

Milano, 13 dicembre 2014Andrea Danielli

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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