Qualcosa di strano sta succedendo a Reggio Emilia.
La storia che vi voglio raccontare è una storia di sorprese. E’ una storia di scoperta e, anche, d’innovazione.
Inizio dalla fine, così ho imparato a fare a Stanford. A Reggio Emilia sta accadendo qualcosa che per usare il linguaggio esoterico dei nostri tempi è qualcosa di cablato, d’interconnesso: è qualcosa wired. Personaggi strani si aggirano in città e intendono porre assieme la tradizione con il tempo di oggi: pensano di “costruire” a partire dalle persone, di cambiare il modo con il quale pensiamo al futuro. Se siete curiosi di saperne qualcosa di più, allora venite il 26 Novembre a Ingegneria di Reggio Emilia, dove si parlerà di educazione all’innovazione con esperti di fama internazionale in Design Thinking e Reggio Approach.
“Educare a innovare… “ che strano accostare questi due termini. Si può davvero imparare a diventare innovativi? Si può davvero sviluppare e mantenere costantemente vivo un pensiero critico che metta in discussione la realtà, lo status quo? C’è un modo per preservare negli anni quella creatività che è massima nell’infanzia di ogni persona e che poi, spesso, svanisce o è mortificata con il passare del tempo? Riusciremo, in quanto società, a conservare quella confidenza creativa che permette all’uomo di asserire con determinazione: “E allora? Nonostante non sia stato mai fatto prima, possiamo comunque farlo.”?
Io credo di sì, e fortunatamente a Reggio Emilia non sono il solo. E nel resto d’Italia? E nel mondo?
Andiamo con ordine e cerchiamo di capire come si sia sviluppato un pensiero tanto rivoluzionario da credere che sia possibile educare ad innovare.
Tutto ha avuto inizio tre anni fa, quando da ricercatore stavo cercando un modo intelligente di progettare (to design) le organizzazioni “mettendoci dentro” più ingegneria possibile. Mi sono dunque chiesto quale luogo potesse essere migliore di Stanford, il tempio dell’ingegneria.
Fatto è che mi trovo catapultato a Stanford, visiting scholar al Center of Design Research, il cui direttore è Larry Leifer, a me presentato da Ulrich Weinberg, che avevo conosciuto casualmente a un workshop dove mi ero infilato perché avevo un buco prima della mia presentazione. Il workshop in questione era sul Design Thinking, e non sapevo certo quanto quell’incontro avrebbe cambiato la mia vita.
Dicevo, Stanford è il parco giochi dei ricercatori e fra un corso e l’altro mi imbatto in un seminario su come insegnare all’università.
Interessante”.
Una volta lì, il relatore mi dice: “Matteo Vignoli?” “Yes”. “Da Reggio Emilia?” “Yes.” “Ah, e lì da voi utilizzate il Reggio Approach all’Università?”
Con espressione attonita rispondo: “Reggio Approach? Quello degli asili? No, noi insegniamo come in tutte le altre università del mondo. In modo tradizionale.” E lui: “Interessante. Lo sai che il Reggio Approach è studiato in tutto il mondo per rivoluzionare i sistemi educativi?”
Non lo sapevo ma in quel momento ho deciso che non avrei più potuto ignorarlo e ho fatto come fanno i ricercatori: sono andato in biblioteca e ho cominciato a leggere. Più leggevo, più aumentava il mio interesse, più mi rendevo conto di quanto profondamente ignorassi quei temi.
Davvero si può “scegliere” il modo di insegnare? Davvero qualcuno ritiene, al di là della retorica, che i problemi di sviluppo della società non siano limitati dalla disponibilità di esecutori ma da quella di esseri pensanti? Davvero qualcuno crede che tutte le persone (sin da quando nascono) abbiano abilità e potenzialità innate e proiettate naturalmente verso un desiderio di espressione e realizzazione?
Parallelamente a tali letture, mi stavo dedicando all’approfondimento del Design Thinking e del modo con il quale a Stanford formano proprio quegli ingegneri che risolveranno fra i più complessi problemi del mondo. Indovinate un po’ cosa c’è alla base della formula segreta? Per risolvere i più complessi problemi di ingegneria è necessario che gli studenti (i futuri ingegneri) trovino una contiguità e anche una continuità fra questi problemi e i bisogni delle persone.
Se a questo aggiungete l’aver realizzato che ad Ingegneria di Reggio Emilia sono presenti in un luogo circoscritto le più importanti discipline delle scienze di base e della tecnica (come in un Politecnico) e che le persone lavorando a stretto contatto s’incontrano frequentemente e possono confrontarsi, parlare e “ipotizzare sogni progettuali”, allora avrete tutti gli elementi di una miscela esplosiva.
Ok, era fatta. Da 10.000 km di distanza avevo capito che qualcosa poteva cambiare e, nella mia visione, poteva essere progettato a Ingegneria di Reggio Emilia un percorso in cui gli studenti avrebbero imparato a innovare.
E non solo gli studenti, perché gli studenti da soli possono smarrirsi quando le famiglie dicono loro “trova un lavoro” e non, invece, “crea un lavoro”, quando tutto il mondo industriale e quello dei servizi e quello della pubblica amministrazione rimane bloccato o indietreggia, quando la litania di una generazione tradita e con poca speranza ci viene propinata giornalmente.
L’evento del 26 Novembre è nato perché questa possa essere una nostra via per cambiare le cose: Educare a Innovare.
Educare con il corpo, con la mente e, soprattutto, con la passione per la scoperta.
Sei dei nostri?